Gli Every Time I Die con “Ex-Lives” confermano quello status di numeri uno assoluti del genere che si portano dietro da qualche anno. Li credevamo persi all’arrivo in Epitaph e ci smentirono con il precedente “New Junk Aesthetics“. Qualche dubbio dopo l’esperienza The Damned Things ci è sorto, ma anche questa volta una loro nuova release si rivela come un sonoro “Vaffanculo, ti sbagli” vomitato nelle orecchie: l’ultimo cd della band di Buffalo si rivela alla fine l’ennesimo trionfo.
Undici tracce (più tre canzoni bonus) per quaranta minuti di musica tiratissima, estrema, con quel retrogusto di southern rock che da sempre si respira con gli Every Time I Die, in un lavoro che non tradisce il percorso evolutivo che sta durando da ormai 15 anni. Una release di impatto già dalla copertina, nella quale viene raffigurata una sommossa tra polizia e dei manifestanti, come se si volesse preavvisare l’ascoltatore che anche “Ex-Lives” è la solita serie di calci rotanti in faccia. Qualsiasi brano si peschi, si casca sempre in piedi: dall’iniziale “Underwater Bimbos from Outer Space“, brano già presentato dal vivo in passato, alla conclusiva “Indian Giver“, siamo di fronte ad una serie di canzoni da panico. Li vedi accelerare oltre il limite di guardia (“The Low Road Has No Exit“), ma anche flirtare con la melodia (il ritornello di “I Suck (Blood)“), ma anche esibirsi in quei mid-tempo che sono il loro trade mark (più o meno ogni brano) e suonare il banjo all’inizio di “Partying Is Such A Sweet Sorrow“. Ad unire il tutto il clamoroso talento di Keith Buckley, che si conferma il miglior cantante in circolazione nel genere: inquietante quando urla non disdegna incursioni melodiche, nelle quali mostra una sicurezza mai ostentata in passato.
Con lo scorso disco affermammo che un ipotetico premio della giuria se lo sarebbero meritato tutto. Questa volta ci sbilanciamo: “Ex-Lives“, già all’inizio del 2012, si candida a uscita di riferimento dell’anno in ambito hardcore.
Nicola Lucchetta
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