Abbiamo spesso presentato quest’evento come la Woodstock dei metallari anni ottanta. Forse abbiamo pure portato male, ma c’abbiamo preso in pieno. Una pioggia a secchiate caduta per quasi 24 ore ha fatto da cornice a uno dei festival più attesi degli ultimi anni. Jonschwil è stata ridotta a una risaia che ospitava alcune tra le più grandi metal band della storia sin dall’opening night di giovedì sera.
A metà tra lo sconvolto e il disperato, abbiamo raggiunto la zona stampa per iniziare il nostro lavoro e poi, tra una trincea e l’altra, abbiamo raggiunto l’area concerti per goderci i set di Overkill ed Airbourne, due band che sanno perfettamente come mettere in piedi un concerto anche in condizioni atmosferiche negative. Quando Bobby Blitz ti urla ‘rrrrrrrotten to the core’ in faccia, tutto il resto non conta più: in formazione rimaneggiata causa assenza di Derek Tayler per problemi familiari (in bocca al lupo a lui, ndr), il gruppo non perde un colpo. Date un’ora agli Overkill e avrete la cosa più vicina possibile al concerto metal definitivo, una hit via l’altra, velocità assassine e pura energia. “Coma” è la chicca della serata, ma anche la colossale “Hammerhead” o l’inno “In Union We Stand” suonati in mezzo al nubifragio assumono valenze inimmaginabili. Tra i migliori in assoluto, come sempre, dell’intero fest.
Gli Airbourne non li avevo visti benissimo al Rock Im Park, invece questa sera, sarà l’acqua, sarà il freddo, hanno messo in piedi un concerto da paura. Suoni altissimi, movimento continuo sullo stage e incitamenti a più non posso per una folla che cominciava ad accusare la stanchezza. Joel O’Keeffe si conferma mattatore assoluto, i brani alla fine sono sempre quelli ma poter finire il set con l’anthemica “Stand Up For Rock’n Roll” è sinonimo di orgasmo conclusivo.
La giornata di venerdì comincia esattamente com’era terminata quella di giovedì: col fango e l’acqua. Pare proprio che qualcuno ci abbia tirato la maledizione addosso, il problema è che ora arrivano a fiotti anche i rimanenti spettatori (supereremo i 40mila a fine giornata) e la risaia di Jonschwil già in condizioni d’emergenza, si trasforma definitivamente in un incubo marrone che raggiunge sotto lo stage profondità anche di 30/40 centimetri.
Questo interessa poco agli Anthrax che, con Joey Belladonna alla voce, danno la prima scossa alla platea. Arrivare sullo stage e partire con “Caught In A Mosh” fa intuire immediatamente che il gruppo ci sta dentro. Suoni tra i migliori della giornata (buoni anche oltre il mixer, ed è una notizia per quanto si ascolterà dopo) aiutano il quintetto a confezionare tre quarti d’ora di livello assoluto, che includeranno anche “Only”, unica testimonianza del periodo Bush che, ahinoi, sembra oramai stato definitivamente messo da parte da Scott Ian.
I Bullet For My Valentine stanno vivendo la loro estate migliore. Il nuovo album “Fever” sta lentamente facendo breccia tra i più giovani e la loro popolarità è in netto aumento. Dopo averli visti carichi in Germania e sufficienti in Italia due giorni prima, dobbiamo dire che Tuck e compagni non si sono esattamente sprecati nemmeno qui in Svizzera, nonostante un buon supporto fornito loro da una schiera di aficionados assiepati sotto lo stage. I boati più grossi sono stati per i brani estratti dal primo disco, sinonimo che una “All This Things I Hate” è entrata nel cuore dei fans molto più che “Scream Aim Fire”, che comunque scatena il circle pit più fangoso che sia possibile vedere.
La gemella cattiva della pioggia che a Torino il 9 Giugno aveva reso magica l’esibizione degli Alice in Chains si abbatte sul Sonisphere Festival di Zurigo, causando fango per almeno 40 cm d’altezza e soprattutto problemi di audio davvero imbarazzanti, in grado di rovinare anche le esibizioni di alcune delle migliori band della storia. Tra queste gli Alice in Chains di Jerry Cantrell, che con una appropriata “Rain When I Die” aprono un set di cinquanta minuti (allontanando di fatto la pioggia da Jonschwil dopo 24 ore di non stop…curioso). Nemmeno “Them Bones” e “Damn That River” riescono a scaldare più di tanto un pubblico che probabilmente attendeva la profondità d’animo di Slayer e Motorhead più di quanta ce ne sia in “Rooster” e “Man in The Box”. E’ così che “Check My Brain”, “Again”, “Lesson Learned” e” We Die Young” si susseguono velocemente con buona pace di chi vorrebbe, ma non può, sprofondare nelle tipiche atmosfere d’oblio che questa band regala da venti anni e più. William DuVall ce la mette tutta, Jerry sorride e probabilmente pensa a quanto sia bello suonare al chiuso o al Rock Im Park, Mike Inez e Sean Kinney a stento pervenuti. Fortuna vuole che le già citate “Man in The Box” e “Rooster” assieme a “Would?” diano una bella scossa ad un pubblico anestetizzato. Sul Saturn Stage tolgono lo striscione dei Bullet for My Valentine per mettere quello degli Stone Sour, mentre sull’Apollo gli Alice in Chains in cinquanta minuti salgono quatti quatti, attaccano a suonare, si fumano qualche sigaretta e scendono con la stessa umiltà, lanciando quintali di plettri. Stile. (r.c.)
Gli Stone Sour sono attesi da ormai mezzo mondo per vari motivi: un secondo disco “Come What(ever) May” che nel 2006 si è presentato come uno dei migliori lavori del decennio, un terzo disco “Audio Secrecy” in arrivo a Settembre e soprattutto la presenza degli Slipknot Corey Taylor e Jim Root, attesi sui palchi d’Europa dopo la scomparsa del fratello Paul Gray. Alla nuova di zecca “Mission Statement” l’onore di aprire uno show bollente, i cui principali artefici sono il solito Corey ed un Roy Mayorga devastante dietro alla batteria. Il brano viene accolto con entusiasmo e cantato da un pubblico che si dimostra attento ai live bootleg che fanno capolino su Youtube con le nuove tracce del prossimo disco. Come un pugno in faccia ecco arrivare “Reborn” (a detta di chi scrive la “Fucking Hostile” dei giorni nostri) e “Made of Scars”, uno dei migliori pezzi di casa Stone Sour anche sotto dal lato del testo. La band è in forma, un po’ meno Mr Taylor, che dimostra di essere notevolmente migliorato sui puliti a discapito di un semigrowl che negli anni va perdendo in potenza. Primo e terzo disco si alternano con le nuove “The Bitter End” e “Did You Tell”, incastrate tra “Blotter” e la devastante “Get Inside”. Per il finale vengono scelte invece “Hell & Consequences” e l’immancabile “30/30-150”. La band tornerà in Europa alla fine dell’anno per il tour promozionale di “Audio Secrecy” come ripetuto da Corey più o meno trecentoventi volte nel corse dell’oretta scarsa di esibizione. Non resta che dare possibilità ad un act davvero valido nonostante la coesistenza di una certa band di nome Slipknot. “Audio Secrecy” è una spada di Damocle e la band sembra in forma per affrontare una sfida così importante. (r.c.)
Gli Slayer avevano recentemente cancellato uno show a causa di qualche problema vocale di zio Tom Araya. C’era qualche dubbio su come avrebbe reagito l’ugola del frontman a così breve distanza dagli impegni col Sonisphere. A giudicare dall’imperiale ‘waaaaaaaaaaaaaaaaaarr’ che annuncia l’inizio del simbolo “War Ensemble” possiamo dire che il Benagol ha fatto il suo sporco lavoro. La band è carica, Dave Lombardo è sempre più immenso e gli Slayer si divertono un mondo a vedere il putiferio che scoppia sotto di loro nell’oretta in cui devastano i nostri timpani. Se da sotto il palco (dietro o comunque vicino allo stesso diciamo) il sound è buono, allontanandosi di qualche metro e/o superando il mixer la situazione si complica e la batteria copre totalmente qualsiasi altra frequenza. “Chemical Warfare”, “South Of Heaven” e “Raining Blood” chiudono il concerto tra boati di varia natura suggellando una prestazione finalmente più che convincente. Certo saranno vecchi, spompi e quel che volete, ma provate voi alla loro età a suonare quella roba per un’ora, poi ne riparliamo…
Quando arrivi sul palco e senza dire nulla riffi “Holy Wars” hai ragione a prescindere. Comincia così il set dei Megadeth, uno dei migliori in assoluto dal punto di vista tecnico/esecutivo. Come da tradizione Mustaine non canna nulla e canta in modo appena sufficiente, la sua band grazie al rientro di Ellefson e all’aggiunta del bravissimo Broderick alla sei corde spezza tutti i colli dei presenti. Anche Shawn Drover appare finalmente integrato nei meccanismi e sorregge dignitosamente tutti gli inni del Megaman. Restano un po’ delusi quelli che si aspettavano l’intera riproposizione della pietra miliare “Rust In Peace”, ma dopo la sorpresona “Hook In Mouth” e “Peace Sells” cantata insieme a un infoiatissimo Scott Ian molti si sono ritrovati con un sorrisone a 35 denti stampato in faccia.
Lemmy e compagni non hanno bisogno di presentazioni. Chi non ha mai visto un concerto dei Motorhead non ha nemmeno diritto a definirsi rocker o qualcosa del genere. “Iron Fist” e via, con Mikkey Dee sempre più indiavolato dietro le pelli e dosi clamorose di attitude dispensate con un solo sguardo, un sorriso o una smorfia dalla leggenda Kilmister a ogni pezzo. “Going To Brazil” e “Killed By Death” creano delle proprie voragini sotto il palco, la gente se ne frega del fango a presa rapida (perché col sole si sta solidificando parecchia roba lì sotto) e si ammazza nel nome del rock n roll sparato a migliaia di decibel. Discorso diverso per chi sta più indietro, si gode ma non si sente bene, un peccato tremendo visto il tiro dei nonnetti sul palco. “Overkill” prolungata oltre misura fa calare il sipario sui Motorhead, che ringraziano e lasciano che la distorsione accompagni la loro uscita dal palco come al solito…
Di polemiche sui Rise Against ne abbiamo sentite e lette pure troppe. In Germania hanno suonato prima dei Rammstein e nessuno ha avuto nulla da ridire, anzi hanno pure spaccato. In Svizzera, probabilmente a causa dell’alta presenza di italiani, non potevano essere in quella posizione. Posto che non ci può fregare di meno di quest’aria fritta, i Rise hanno fatto il loro mestiere come al solito, dando tutto quello che avevano, saltando e cercando di movimentare il più possibile la situazione. Parecchie giovane leve lì per loro e molti a cercare di prendersi da mangiare o da bere guadando la risaia dall’altra parte del palco. La band è sicuramente adatta a un pubblico meno metalloso, ma ha svolto il proprio compito con dignità, godendo anche di un mixing audio niente male rispetto alle band precedenti.
Sui Metallica è stato detto tutto. Forse anche troppo. Praticamente famosi quanto Madonna, i ragazzacci californiani del 1981 sono diventati oggi una delle più grandi di sempre rock band di sempre, e prima ancora la più grande metal band della storia. Cosa c’è allora da aggiungere? Il fatto che ogni volta un loro concerto sembri essere il primo; perché quando cala il silenzio, all’improvviso, e le prime note di “The Ecstasy of Gold” di Ennio Morricone escono dalle casse, assieme alle immagini de “Il Buono, il Brutto e il Cattivo” di Sergio Leone, nessuno riesce a restarne indifferente. E quando Hetfield e soci salgono sul palco sparando a raffica “Creeping Death”, “For Whom The Bell Tolls”, “Ride The Lightning”, “No Remorse” e “Fade To Black” (sì avete letto bene) ecco che l’impressione di essere di fronte a qualcosa di ripetibile solo dai Metallica stessi inizia ad insidiarsi nella mente delle decine di migliaia presenti in quel di Zurigo.
James Hetfield è in forma come non lo si vedeva da tempo, sia fisicamente che vocalmente, gioca con il pubblico e dal volto traspare quella sensazione di puro piacere e di onnipotenza che da sempre lo contraddistingue. Mr Hammett sembra avere recuperato molta della tecnica lasciata per strada negli anni, cosa di cui non è mai stato invece privo Trujillo, davvero un mostro delle 4/5 corde. Lars invece è Lars, prendere o lasciare. Per chi scrive si tratta della ennesima partecipazione ad un concerto dei Four Horsemen e la sensazione è che il buon Ulrich abbia avuto giorni migliori. Ma il tocco ed il timing sono i suoi, ed è sua la carica che questo tennista danese conferisce da tre decadi ai pezzi dei Metallica. Le riflessioni aumentano quando “That Was Just Your Life” e “End of The Line”, suonate così a stretto contatto con il vecchio materiale, dimostrano di essere in grado di reggere il confronto, prima che un’infuocata “Sad But True” (dedicata ai Big Four, ndr) e “Welcome Home (Sanitarium)” ci riportino agli anni d’oro. Immancabili “Master of Puppets”, “Nothing Else Matters” ed “Enter Sandman”, mentre “Fight Fire with Fire”, “Breadfan” e “Whiplash” si rivelano una non troppo scontata ma pur sempre piacevole sorpresa. Chiusura, come di consueto, affidata a “Seek & Destroy”, con i Metallica che si affermano come i più grandi dei quattro grandi. Ma questa è acqua calda che si scopre da sola. (r.c.)
I Volbeat sono l’ultimo gruppo seguito da un buon numero di persone del festival. I Danesi forti di una confidenza e di una personalità che è in netto aumento, il tutto dovuto a centinaia di date che vengono macinate mese dopo mese, fanno il loro concerto sorprendendo chi non li conosceva e anche quelli che si trascinano stancamente verso l’uscita dopo una giornata campale. La dedica a Dio di “Sad Man’s Tongue” è la stessa del RiP, anche carica e potenza esecutiva non fanno difetto ai quattro. Band sicuramente da tenere d’occhio e che sta aumentando il proprio seguito.
Il Sonisphere per Outune finisce qui, con l’ennesima chilata di pasta consumata nel camper, con caffè e ammazzacaffè consumati con Amon Amarth di sottofondo, fin quando alle 2 e mezza di notte, un trattore estrae dalla trincea il nostro mezzo immettendoci sulla strada per il ritorno, inaspettatamente deserta e libera a quell’ora. Se dal lato ‘pubblico’ molte critiche si possono muovere all’organizzazione (non quella del tasso di cambio però, come se a Londra si pagasse in Euro, ndr), dal lato ‘stampa’ è stato tutto clamorosamente eccellente.
J.C., Riccardo Canato (r.c.)
Si ringraziano per la fantastica collaborazione Free And Virgin e Musikvertrieb.ch.
Nel bene o nel male, questo Sonishpere Svizzero rimarrà negli annali. In definitiva, un’esperienza di vita che ricorderemo tutti. Il sogno bagnato di ogni metallaro anni ’80 è diventato l’incubo bagnato di ogni metallaro anni ’80 …un’esperienza estrema, da veri rockettari.
Impossibile dare un voto definitivo al tutto: dipende da come ognuno ha vissuto le due giornate. D’altra parte, quando si mette di mezzo il cattivo tempo, tutte le regole saltano.
Il luogo del concerto è simile al Wacken e a tutti gli altri festival open air davvero, assolutamente, open air: fantastico se c’è il bel tempo, orribile se viene a piovere. E così è stato, con due giorni di pioggia quasi ininterrotta che hanno eliminato anche l’ultimo dei fili d’erba, lasciando il posto alle sabbie mobili. Di fieno non se n’è visto, in compenso i ‘pit’ sotto i due palchi erano ricoperti da teli di plastica che hanno cercato, per quanto possibile, di metterci una pezza. Davvero scomodo però il posizionamento del tutto: per arrivare ai palchi era obbligatorio passare per il campeggio, e due palchi erano in pratica in un cul-de-sac, con il palco principale parzialmente coperto dalle torrette coi fari. Per godere appieno si doveva stare davanti, punto.
Stesso discorso per i suoni: è un miracolo che tutte le band siano riuscite a suonare, ma la qualità del suono ha risentito della ‘conca’ in cui erano affossati i palchi. Paradossalmente l’acustica era ottima davanti al palco e nella zona esterna (stando dentro al camper si sentiva) ma pessima appena fuori dalla cerchia
stretta dei palchi. Per quanto riguarda i servizi sono stati parecchio altalenanti: nulli nella zona camper (20 franchi per lasciare un camper in un prato senza alcun tipo di allacciamento), numerosi i cessi ma scarse le doccie (anche se in una situazione simile c’è poco da fare), servizio di ristorazione abbastanza costoso e ‘dilatato’ (molti baracchini e baracconate, ma alla fine per mangiare c’erano solo due stand). Comprensibile, ma fastidioso, come gli svizzeri non siano stati molto flessibili sul cambio euro/franco: gli sprovveduti che credevano di cavarsela solo con gli euro si sono beccati spesso in faccia un disonesto pareggio eur/chf. Insomma, la soluzione migliore per sopravvivere sarebbe stata avere delle calosce e un comodo camper in cui ripiegare, per tutti gli altri un festa rovinata.
Overkill: fenomenali. Loro sono il vero Heavy Metal, punto e basta. Non arretrano di un passo, Bobby è un figo assoluto, grande set (Ironbound, Hammerhead, Coma, In Union We Stand, Elimination e il medley finale Fuck You/Stand Up And Shout), anche in formazione a quattro sono compatti e letali. Sono rimasti tutta la vita un gruppo di nicchia ma sono meravigliosi.
Airbourne: sei lì, infreddolito e infangato, sotto la pioggia, ad aspettare il cambio di palco…e saltano fuori loro. Ripetitivi al massimo, supercopiazzoni di AC/DC ma vederli saltare a torso nudo sotto la pioggia sparando assoli a raffica ti restituisce la vita. Bambini che giocano a fare le rockstar, ma l’illusione è perfetta.
Alice In Chains: c’entrano poco col resto del bill ma sono assolutamente i migliori. Precisi, affiatati, il nuovo cantante porta avanti il suo gravoso compito con grinta e passione. Un misto di novità e vecchi classici, suonato con la convinzione di una band che non avrebbe mai dovuto fermarsi.
Stone Sour: il secondo gruppo di Corey Taylor (cantante degli Slipknot) piano piano matura. Ci si aspetta grandi cose dal nuovo disco, lui ce la mette tutta con simpatia ma rimane un po’ il dubbio di che farsene di questa sottospecie di Nickelback per metallari.
Slayer: ormai gli Slayer sono finiti. E’ dura da dire, ma la fine è ineluttabile. Si spengono in maniera degna, però, con concerti che riescono ad essere ancora convincenti (visto quello che suonano e l’età che hanno). La scaletta è convenientemente bilanciata su materiale nuovo e pezzi meno forsennati (Jihad, Dead Skin Mask…), la qualità è indiscutibile ma ormai manca la furia omicida di una volta. Ormai sono sempre più imbalsamati (con un Araya che per questioni mediche non può più fare headbanging :_( ), sotto palco non si scatena più il terrore come una volta ma rimangono dei maestri.
Megadeth: Dave Mustaine probabilmente vive con sofferenza il suo paradosso. Che sarebbe odiare l’essere stato costretto a ridurre i Megadeth ad una band revival ma anche amare l’essere, in pratica, la band più in forma dei big four. I riff sono quelli, e sono macinati con una convinzione spaventosa. Non c’è stato tutto Rust In Peace come molti speravano, ma un canonico best of, con come uniche sorprese una rara ‘Hook In Mouth’ e Scott Ian a partecipare al finale di Peace Sells (evitabile, il nano). Se questo è l’unico modo per sopravvivere…ben venga.
Motorhead: premio alla carriera per gli inossidabili Motorhead. Nonostante qualche problema alla strumentazione hanno mischiato classici e pezzi recenti (Iron Fist, In The Name Of Tragedy, Ace Of Spades). Vorremmo essere il motore che fa andare avanti Lemmy.
Rise Against: vedere i Rise Against in mezzo a questa giornata è come accendersi l’ipod in mezzo ad un mare di cassette e walkman. Sono bruttissimi ma saltano come dei matti, facendo sembrare statue di sale tutti gli altri. Peccato che la loro proposta di punk melodico ipervitaminizzato fosse alla frutta già dai tempi di Offspring e Greenday del 2000, peccato siano così alti nel bill solo perché ‘flavour of the month’ per i ragazzini e peccato che creino più che altro fastidio ed indifferenza alle migliaia di metallari presenti.
Metallica: canonico concerto per Hetfield e soci, come al solito spinti in questa parte conclusiva della loro carriera da un’attitudine cazzona e ‘volemose bene’: pezzi suonati a raffica e al doppio della velocità per far più casino possibile e nascondere qualche stecca di troppo (soprattutto del nano danese). Hetfield unico trascinatore, Ulrich sembra divertirsi, gli altri due come al solito un po’ spaesati. I classici più commerciali, diversa roba dall’ultimo Death Magnetic, piacevole rispolverata di Ride The Lightning (con Fight Fire With Fire, Creeping Death, Fade To Black, For Whom The Bell Tolls, titletrack) e finalone con Whiplash/Seek And Destroy.
Marco Brambilla
2 comments