Che band della madonna gli Spandau Ballet, e lo dico da Wild Boy. La pop band inglese, tra i protagonisti degli anni Ottanta e del movimento New Romantic, ha riempito per bene il Palafabris di Padova nella terza delle cinque tappe in programma per questo inizio di primavera. Anche in Veneto si replica quindi il clamoroso successo dei precedenti show di Milano e Torino.
Chi si aspettava un gruppo ancora minato dalle vicende legali di fine anni Novanta, o dal traguardo dei cinquant’anni ormai ampiamente superato da tutti, è stato smentito senza riserva già dall’iniziale “Soul Boy”, inedito che potrebbe tranquillamente competere con i loro brani più famosi: l’impatto sonoro è quello delle grandi occasioni, i cinque sono in uno stato di forma eccezionale ed entrano da subito in sintonia con un pubblico in estasi già dalle prime note.
Impossibile stabilire chi sia il totem, colui che trascina gli Spandau Ballet. Tony Hadley è il solito gigante, probabilmente anche dimagrito di qualche chilo rispetto ai tempi di “Goodbye Malinconia”: non sarà mai stato un animale da palcoscenico come un Bruce Springsteen, ma la sua voce del 2015 è ancora più clamorosa di quella degli anni Ottanta. Nessun calo, nessuna stecca, nessun errore: un cazzo di numero uno.
Ma non sono da meno neanche i suoi colleghi. La sezione ritmica seguita da Martin Kemp e John Keeble, magari sulle retrovie nel contatto sul pubblico rispetto agli altri (anche se siam convinti che una buona fetta del pubblico femminile era lì perché, ai tempi, fan del più giovane dei Kemp), è invece una certezza nell’amalgama del suono, tenendo il tempo in brani più ritmati come “Highly Strung” e la strumentale “Glow”, ma giocando anche un ruolo fondamentale in ballad come “True” e “Through The Barricades”. Gary Kemp è invece il piccolo genio del quintetto: autore di praticamente tutti i pezzi degli Spandau Ballet, sul palco è impeccabile. Dal carisma magnetico, il musicista giocherà un ruolo fondamentale in tutto il concerto, con i suoi assoli e riff di chitarra elettrica e con l’accompagnamento in chitarra acustica di Hadley in una “Empty Spaces” suonata sulle gradinate in mezzo al pubblico.
Ma il vero eroe, se proprio bisogna fare un nome, è Steve Norman, molto probabilmente l’uomo che ha permesso agli Spandau Ballet di diventare quello che sono oggi. Ok la voce di Hadley, ok la batteria di Keeble, ok il genio di Gary Kemp e il fascino di Martin Kemp, ma la band la amiamo soprattutto perché nei loro pezzi ci sono le percussioni e il sax piazzati al punto giusto. E quelli sono la prerogativa di sto ragazzo inglese che li introdusse in “Diamond” per poi esplodere nel masterpiece “True”, un polistrumentista clamoroso che si ritaglierà più spazi da primadonna nel corso della serata. Ho detto ragazzo? Sì, e volutamente: a 55 anni suonati Steve Norman è più in forma di certi trentenni che girano per le strade. Di sicuro, è più giovanile oggi di quando aveva un trendy ma ignobile mullet nella seconda metà degli Anni Ottanta.
Nessuna sorpresa dal fronte scaletta, che non subisce alcuna variazione rispetto a quanto proposto nelle precedenti serate. I singoli conosciuti ci sono praticamente tutti, e la chiusura finale con la ballad “Through The Barricades”, l’anthemica “Fight For Ourselves” (mediocre su disco ma perfetta in un contesto live) e la clamorosa “Gold” (inossidabile a distanza di trent’anni) è stata una botta difficile da superare, tra lacrimucce e cori a squarciagola. Ma tra i vari brani va ricordato il Blitz Medley, un medley di estratti da “Journeys to Glory” a conferma del fatto che gli Spandau Ballet non dimenticano le loro origini di giovanotti di Islington che bazzicarono tra i Seventies e gli Eighties un piccolo club di Covent Garden destinato a rivoluzionare la scena pop internazionale. Un amarcord nel quale è incluso un tributo a Steve Strange, deceduto lo scorso febbraio e omaggiato alla fine della selezione nel momento che, per chi scrive, è l’highlight di uno show indimenticabile.
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