L’Hard Rock Calling festival, organizzato dalla catena di ristorazione “rock” più celebre al mondo insieme a Live Nation, giunge alla quinta edizione e lo fa, come tradizione, proponendo un bill da brividi (e per i palati più differenti).
Hyde Park rimane una delle cornici più suggestive in Europa dove tenere eventi di tali dimensioni: fin dagli anni ’70 è stato teatro di concerti memorabili e basta scorrere la lista dei partecipanti al festival dal 2006 ad oggi per rendersi conto dell’importanza di un evento che ormai è un classico dell’estate londinese. Neil Young, Police, Eric Clapton, The Who, Peter Gabriel, Aerosmith e Bruce Springsteen (che ne ha appena tratto un dvd) sono solo alcuni degli artisti che hanno calcato questo palco: roba da brividi lungo la schiena.
L’edizione 2010 parte subito col botto con headliner del calibro di The Hives (sostituti dei Wolfmother), Ben Harper e Paerl Jam, tornati in Europa ad un anno dalle date che avevano preceduto l’uscita di “Backspacer”. La sorpresa maggiore ce la regalano proprio i The Hives: non era facile rimpiazzare un gruppo che in Inghilterra gode di numerosi fan come i Wolfmother, ma la band svedese, trainata da uno scatenato Howlin’ Pelle Almqvist al confine tra Mick Jagger e Iggy Pop, ha conquistato i 120000 presenti dopo due accordi. Davvero notevoli. Prima dell’arrivo del gruppo di Seattle, ecco salire sul palco Ben Harper, alla sua seconda apparizione all’HRC. Dopo l’ormai classico inizio con “Better Way”, ecco uno dei momenti più alti dell’intera kermesse: Harper chiama sul palco un “amico” di nome Eddie Vedder, col quale rende omaggio ai Queen con una versione senza precedenti di “Under Pressure” che lascia attoniti gli spettatori. Nessuno dei due prima di questa occasione aveva mai cantato questo pezzo e riesce difficile trovare un nesso tra il loro background musicale e quello della band di Freddie Mercury (se non un semplice omaggio ad uno dei gruppi inglesi più importanti della storia). Il resto dello show del musicista punterà più sull’intensità dei pezzi che sull’energia degli stessi, quasi a fare da contraltare agli scatenati Hives appena scesi dal palco e, alla fine, deludendo un pochino. Ciò nonostante, alla conclusione del set, la sensazione dei più è che in una delle prossime edizioni sarà lui uno dei nomi sul gradino più alto del podio…
Per ora, però, su quel gradino salgono ancora i Pearl Jam. La band di Vedder e soci non ha mai attirato i soli seguaci (e ora reduci) del grunge, ma gli amanti del rock classico nella sua totalità. A dirla tutta, infatti, la band è stata sì una delle punte di diamante del movimento, ma fin dagli esordi non ha mai nascosto il proprio background legato ai seventies e, a conti fatti, può essere ormai inserita tra le più grandi di sempre. Tutto ciò per merito di show incendiari come quello di stasera, di una possibilità di scelta di pezzi smisurata e del carisma di uno dei migliori frontman degli ultimi vent’anni. “Given To Fly” apre le danze, seguita da una serie di hit che fa spavento, ma soprattutto da alcune gradite sorprese: in primis la cover di “Brain Damage” dei Pink Floyd, che fa da intro a “Corduroy”, poi “Arms Aloft”, grande omaggio a Joe Strummer che Vedder racconta essere una delle persone che ha permesso al gruppo di conoscersi ed infine lo “scambio di favore” con Ben Harper, sulle splendide note di “Red mosquito”. Finale classico che più classico non si può con la splendida “Yellow Leadbetter”, forse il loro pezzo più amato dai fan.
La seconda giornata, più funk oriented, non poteva che riportare sui palchi inglesi il redivivo Jamiroquai, seguito dall’attesissimo show di Stevie Wonder. Se il primo svolge il proprio compito con molta professionalità, ma non dando mai l’idea di impegnarsi fino in fondo, l’autore di “I Just Called To Say I Love You” fa pure di più di quello che ognuno di noi potesse immaginarsi: entrata trionfante camminando da solo e suonando una tastiera tra le urla del pubblico, battute sulla sua cecità, assoli sdraiato per terra e una serie di canzoni che davvero in pochi possono permettersi nel panorama musicale mondiale. Le hit sono tutte presenti e regolarmente cantate da ogni persona presente all’evento: poche volte mi era capitato di sentire un tale karaoke formato da persone di ogni età e di gusti musicali differenti. Dopo la comparsata di Paul McCarney sul palco di Neil Young dello scorso anno, più di una persona sperava nel bis per “Ebony and Ivory”, ma purtroppo o per fortuna, alcune cose sono destinate a rimanere dei semplici sogni.
Sogni che però alle volte si realizzano, come quello personale di vedere Sir Paul non proprio nella sua Liverpool, ma di certo nella seconda città per importanza nella storia dei Beatles. Se la giornata precedente, però, aveva sparato i propri botti solo sul finale, quella conclusiva non poteva lasciare nulla al caso. Ad essere sincero, vedere Elvis Costello suonare alle tre del pomeriggio un po’ mi ha colpito, forse perché in Italia vedere uno dei massimi esponenti della nostra musica suonare dopo pranzo sarebbe inconcepibile persino ad un festival. Temperature record e il fatto che contemporaneamente si giocassero gli ottavi di finale più sentiti della storia recente del calcio inglese, non hanno minimamente intaccato l’attenzione dei presenti su un’esibizione perfetta e coronata da una versione da brividi di “You’ve Got To Hide Your Love Away”, quasi ad evocare in anticipo lo spirito dei Fab Four.
I passi successivi verso l’incontro con il divino portavano il nome di Crosby, Stills & Nash e Crowded House, in una successione che a noi può sembrare strana, ma per la musica anglosassone risulta perfettamente coerente. Se infatti, da italiani, potevamo pensare che gli autori di “Deja Vu” dovessero suonare prima di McCartney, non avevamo fatto i conti con uno dei gruppi più celebri di sempre in terra inglese. CS&N, qui per presentare il loro primo disco di cover (prodotto da Rick Rubin!!), con le celebri armonie vocali incantano ancora come a Woodstock, ma sono costretti a scaldare il palco per i Crowded House, le cui canzoni vengono cantate a squarciagola da chiunque si trovi nell’area recintata di Hyde Park. Dalla conclusione del loro set in poi, i pensieri saranno rivolti esclusivamente ad una delle 7-8 figure più importanti della musica che tanto amiamo e al più influente gruppo nato dal dopo guerra ad oggi.
Paul McCartney ha quasi settant’anni (sì 70), ma pare più giovane di alcuni trentenni strafatti che mi circondano. Vederlo sul palco è semplicemente stupefacente: suona ogni tipo di strumento per più di tre ore, non fa mai pause se non per interloquire con i propri fan. Non ha bisogno di mostrarsi irraggiungibile, è affabile e molto incline allo scherzo, all’autoironia e a smontare un po’ il proprio mito. Soprattutto, però, può farti sembrare la stratosferica “Band On The Run” un pezzo minore perché seguito da “Helter Skelter” o “A Day In The Life” e, dispiace dirlo, ma sono cose che può fare solo un Beatle. Come rendere omaggio con “Something” ad uno dei musicisti più talentuosi e discreti di sempre (e più importante per l’equilibrio del gruppo di quanto si pensi) e, contemporaneamente, con “Give Peace A Chance” portare avanti il testimone pacifista di suo fratello John. Il tutto senza perdere un minimo di credibilità, anzi dimostrando di aver fatto tesoro di ogni esperienza passata. Una volta finita la magia, sulla strada di ritorno verso la metro, di colpo mi assale un pensiero: se fosse anche fondata la storica diceria sulla sua presunta morte, questo “impostore” sarebbe comunque l’autore di “Sergent Pepper”, del “White Album” e di “Abbey Road”… Che ci sia andata meglio?
Luca Garrò