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In rete si trovano recensioni molto positive su “Deep Blue”, addirittura entusiastiche. Mi è costato vari ascolti formulare un giudizio per la terza release del combo australiano, e questo probabilmente perché i lavori precedenti non mi avevano mai stupito per originalità: del resto i Parkway Drive rappresentano in pieno i canoni metalcore, con tutti i pro e contro del caso.
“Deep Blue” in apparenza non pare diverso, anche questa volta non c’è nessun cambiamento rivoluzionario; ciò però che posiziona l’album una spanna sopra alla solita minestra è un songwriting più ispirato e memorabile per buona parte del platter (grazie anche a un Winston McCall in gran spolvero, una delle voci più valide della scena), complice soprattutto una melodia (utilizzata un po’ ovunque) che cambia quella che è la prospettiva d’ascolto: sia chiaro, niente coretti effeminati, ma bensì chitarre pulite inserite intelligentemente nelle strutture delle songs. Questo dona un’atmosfera tutta particolare, talvolta suggestiva, davvero rara per il genere: mi riferisco a brani come l’atmosferica “Alone”, che apre con un riff pulito di chitarra, o “Home Is For The Heartless”, che tra cori e tapping elettrici rompe la monotonia data dall’uso ossessivo di rallentamenti presenti (e inflazionati) nel resto del disco.
Questo il lato positivo. Se non lo considerassimo resterebbe un onesto prodotto metalcore come ce ne sono tanti, coi suoi breakdown scontati monocorda (tranne che in “Pressures”, in cui la cavalcata rallentata unita ai cambi di tempo rende il pezzo uno dei migliori del disco) e tutti gli altri cliché del caso. Fan della band a parte, per i quali “Deep Blue” rappresenterà verosimilmente la release dell’anno, la domanda che pongo a tutti gli altri è: questa vena inedita dei Parkway Drive è un elemento sufficiente per farveli piacere di più rispetto al resto dei gruppi medi del panorama? A voi la risposta.
Nicolò Barovier