I Soundgarden pubblicano ad un anno dalla reunion Live On i5, il loro primo live album ufficiale registrato tra novembre e dicembre del 1996 nella costa occidentale del Nordamerica. Titolo azzeccato (la I5 non è altro che la Interstate 5, strada che percorre da nord a sud la West Coast), ma scelta inusuale per i brani: sono state prese 17 canzoni da diverse serate (registrate con uno studio mobile e un mixer 24 tracce), escludendo in partenza l’ipotesi di riproporre un’intero concerto dall’inizio alla fine.
Aiutati molto probabilmente da una setlist costruita sulle migliori performance del minitour, Chris Cornell e soci dimostrano uno stato di forma impressionante. Gli statunitensi non sono perfetti (Let Me Drown, soprattutto nel cantato, è vicina al mediocre), ma dal vivo confermano senza tanta fatica il fatto che l’etichetta grunge sia stata per la loro musica troppo riduttiva. Quello che emerge da questo disco è gruppo che regge sulla perfetta alchimia di tutti e quattro i componenti: un Cornell stellare, i riff hard rock di stampo zeppeliniano di Kim Thayil e la potente sezione ritmica curata dalla coppia Matt Cameron – Ben Shepherd, con il primo che da lì a poco sarebbe entrato in pianta stabile nei Pearl Jam.
Un live nel quale trova ampio spazio la parte finale della carriera, quella del maggiore successo commerciale. Impressionanti le versioni di Jesus Christ Pose, Rusty Cage e Black Hole Sun, proposta in un’inedita versione acustica cantata da un Chris Cornell in forma di grazia. Spazio anche per due riuscite cover, Helter Skelter e Search and Destroy: tra le due, un punto in più alla rockeggiante canzone degli Stooges rispetto al riarrangiamento dei Beatles.
Live on i5 è un live album riuscito, che però, come con Telephantasm, non aggiunge e toglie nulla al già immenso valore della band di Seattle. E, soprattutto, confonde ancora più le idee dei fan nell’immaginare l’immediato futuro dei Soundgarden.
Nicola Lucchetta