Il più longevo festival metal del nostro paese torna a Milano, o meglio vicino a Milano, tanto da diventare probabilmente la kermesse musicale ad aver cambiato location più volte nella storia. Insomma, nessuno vuole accollarsi migliaia di metallari (per altro civilissimi) per più di due anni consecutivi.
L’edizione 2011, composta da una sola giornata, ha visto sfilare nomi di tutto rispetto già dalle prime ore del pomeriggio, tanto che è dispiaciuto non poco sentir suonare per pochi minuti i fratelli Cavalera e Duff McKagan e veder salire sul palco dopo di loro gruppi come Epica e Cradle Of Filth per set un po’ più corposi. Detto ciò, quando così tante band suonano sullo stesso palco è inevitabile che a qualcuno vada meglio che ad altri. Che la qualità fosse alta l’avevano già dimostrato in apertura i Baptized In Blood, band canadese molto convincente, ma senza dubbio la giornata ha preso il volo solo all’arrivo dei riuniti Mr Big: non c’è niente da fare, Paul Gilbert e soci sono una delle cose più belle mai capitate nella musica degli ultimi venticinque anni e anche questa volta hanno lasciato di sasso chiunque, dal thrasher convinto al gotico, passando per i rocker oltranzisti. La loro dote maggiore è quella di riuscire a coinvolgere il pubblico con pezzi dalla presa immediata, supportati da una tecnica complessiva che forse non esiste in nessun’altra band hard odierna e, cosa non da poco, senza sforare mai nel pacchiano con i propri virtuosismi.
E’ giunto poi il momento degli Europe, che potevano sembrare un po’ un azzardo per il Gods Of Metal, ma che in realtà in un bill che comprendeva Mr Big e Whitesnake, stavano alla perfezione. La svolta degli album post reunion li ha posti di sicuro tra i grandi dell’hard rock e la performance complessiva di Rho ha confermato che la scelta degli organizzatori sì è rivelata assolutamente azzeccata. Va detto, ad onor del vero, che in Italia li abbiamo visti meglio altre volte: qualche piccola sbavatura ha fatto pensare che la band non fosse al massimo o che qualche elemento potesse avere dei problemi. Cose che succedono facilmente ad un festival.
Inutile girarci intorno, i gruppi più attesi erano chiaramente Whitesnake e Judas Priest: i primi perché da un po’ assenti nel nostro paese e perché freschi di un album pazzesco con la nostrana Frontiers; i secondi invece perché padrini assoluti dell’heavy metal, capaci ad ogni passaggio in Italia di creare entusiasmo sfrenato. Diciamo subito che David Coverdale ha recuperato la voce: sentirlo scaldarsi nel backstage con i suoi classici “ululati” sarà una cosa davvero difficile da dimenticare. Il fatto di non essere gli headliner ha inevitabilmente causato qualche taglio in scaletta (niente pezzi Purple per intenderci), tanto che il buon David avrebbe potuto optare per qualche pezzo in più a scapito di un po’ di assolo prolungati, ma va benissimo così: dopo l’inizio con “Best Years”, dal penultimo album, ecco il filotto “Give Me All Your Love”, “Love Ain’t No Stranger” e “Is This Love”, col quale il frontman porta dalla propria parte l’ottanta per cento del pubblico femminile presente. C’è spazio anche per “Forevermore”, che anche dal vivo dimostra la sua validità, mentre il finale è super classico: “Fool For Your Loving”, “Here I Go Again” e “Still Of The Night”, sulla quale aleggia il solito fantasma di Plant…
Ecco quindi il momento dei Priest. Diciamolo subito, la notizia che questo non sarà il loro ultimo tour ormai è il segreto di pulcinella. Visto che però fino alla data dell’Hellfest, Halford si ostinava a ribadirlo, ecco che Ian Hill ci ha confermato il contrario: “andremo avanti, solo con tour meno lunghi”. L’Epitaph tour, a questo punto, ha poca ragion di esistere. Chiuso il capitolo polemico, apriamo quello dello show, di sicuro il migliore di sempre dal ritorno di Halford. Sarà il nuovo chitarrista, sarà che anche loro si fossero convinti ad un certo punto che sarebbe stato il gran finale o chissà cosa, ma questo è il tour dei Priest che la gente voleva da vent’anni: potentissimi, incazzati, senza sbavature e con un Halford in forma spaventosa. Le hit a cui non si può rinunciare ci sono tutte, persino il finale con “Living After Midnight” che mancava da tempo e una “Painkiller” finalmente cantata dal Metal God e non da Phil Anselmo. Insomma, goduria assoluta. Aggiungeteci pezzi pescati a caso come “Starbreaker” e “Never Satisfied”, la classicità che solo “Victim Of Changes” e “Diamond And Rust” sanno regalare e riuscirete a capire perché persino “Turbo Lover” sia stata cantata all’unisono dal pubblico. Forse sarebbe stata la fine perfetta di una carriera incredibile, ma è bello pensare che magari la prossima volta potremmo cantare “Some Heads Are Gonna Roll”!!
Luca Garrò
Cradle Of Filth: lo fanno per il LOL
Mr. Big: davvero attesi dal pubblico, hanno ricevuto una risposta calda ed entusiasta. Assolutamente i più virtuosi della giornata, hanno macinato note su note, promuovendo a dovere l’ultimo disco (da cui spiccano “Undertow“, “American Beauty“, “Around The World“) e offrendo una manciata di loro classici come “Addicted To That Rush“, “Colorado Bulldog“, “Daddy, Brother, Lover, Little Boy” (trapano compreso) e pure episodi più melodici come “Green-Tinted Sixties Mind“. Per qualche ragione assente clamorosa “To Be With You” (eppure avevano pronta la chitarra acustica…). Tutto il gruppo in palla, Eric Martin divertito e impeccabile, Sheehan e Gilbert assoluti protagonisti nello sfidarsi a colpi di cascate di note. Di sicuro non un concerto per gli amanti del pogo, ma va tra il meglio della giornata. Pure Duff McKagan ha seguito divertito l’esibizione.
Europe: una nota abbastanza stonata in una giornata altrimenti perfetta. Gli Europe salgono sul palco ed offrono una prestazione un po’ troppo rigida: si va avanti a singhiozzi, con molte pause tecniche per far girare le chitarre di John Norum (ormai talmente gonfio da sembrare Timo Tolkki). Joey Tempest sembra avere voce ma i fonici fanno di tutto per non farcela sentire. Non basta il suo sorriso smagliante a farci digerire una scaletta decisamente troppo “di nicchia”. Qualcosa si muove con “Storm Of Anger” e “Superstitious“, ma nessun altro pezzo ingrana davvero, tanto che addirittura “Carrie” viene vista dal pubblico come aria fresca. E’ un’ ora lunghissima, che per fortuna si chiude con la doppietta “Rock The Night“/”The Final Countdown“, vera e propria gioia per il pubblico pressochè muto fino a quel momento.
Withesnake: pur non essendo in formazione all-star come qualche anno fa, David Coverdale e soci piazzano un concerto davvero sentito e grintoso. Il rubacuori inglese è uno degli esempi di come vorremmo essere da vecchi (l’altro è Iggy Pop) e ripaga l’affetto del pubblico con una performance intensa. Concerto aperto con la promozione del nuovo album “Forevermore“, più qualche classico come “Love Ain’t No Stranger” “Is This Love?“. Una lunga pausa centrale (dove Coverdale si è appartato in una misteriosa tenda costruita apposta per lui) dedicata agli assoli, dove hanno duellato alla chitarra Doug Aldrich e Reb Beach (qualche problemino per lui) e dove ha scassato tutto il nuovo, animalesco, batterista. Finale con in classiconi tutti di fila (“Slide It In“, “Fool For Your Lovin’“, “Here I Go Again” e chiusura con “Still Of The Night“) e pubblico preso benissimo.
Judas Priest: Living After Midnight, ma per davvero! Un concerto tostissimo, un sogno per i fan! Due ore e mezza dove hanno piazzato almeno un pezzo da ogni disco (tranne quei due), con uno spettacolo carico a mille. Hanno svuotato la soffitta e hanno portato tutto: fiamme, laser, fumo, la moto, tutti i vestiti di Rob. Halford ha retto benissimo, rendendo decente persino “Painkiller” (una cosa che non capita spesso), e tirando fuori dalla cantina vecchi classici come “Never Satisfied” e “Starbreaker“. Fa una sensazione stranissima dirlo, ma l’assenza di K.K. Downing non è pesata per nulla: il sostituto è giovane, sta benissimo nella divisa in pelle e ha macinato assoli su assoli. Su internet si è parlato a lungo di questo benedetto tour pubblicizzato come un addio ma che un addio non è…in un modo o nell’altro, si è rivelato un evento, i presenti lo ricorderanno per gli anni a venire.
Marco Brambilla