“Venezia è bellissima“: così inizia l’intervista con Jim Suptic, chitarrista e cantante dei The Get Up Kids, band che nel mese di ottobre è passata in Italia nel tour di promozione di “There Are Rules“. Ancora toccato dalla giornata trascorsa nell’affascinante capoluogo veneto, il musicista ha risposto alle nostre domande riguardanti il nuovo album e tante altre cose, dal recente passato ai programmi per l’imminente futuro, che non sarà caratterizzato da uno scioglimento, ma da un periodo di sosta che li terrà lontani dal music biz per un lungo periodo.
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Siete ritornati nel 2009 con un reunion tour e quest’anno avete pubblicato il nuovo disco. Dopo pochi mesi, però, annunciate che questo sarà l’ultimo tour prima di una lunga pausa. Quali sono le ragioni che vi hanno spinti a questa decisione?
Questi tre anni sono stati per noi molto intensi. Siamo in giro ininterrottamente dal 2009, l’anno della reunion, e con l’ultimo disco abbiamo praticamente suonato ovunque: Stati Uniti, Europa, Giappone, Sudamerica, nei grandi festival e nei piccoli club. Ci è sembrato giusto prenderci una lunga pausa nella quale dedicarci ai nostri impegni. Il mondo della musica lo adoriamo ancora, però non vogliamo neanche fare un’indigestione di vita on the road. Ci sono possibilità di ritornare a scrivere musica il prossimo anno, ma abbiamo deciso la formula della “lunga pausa” proprio per non darci delle scadenze e ritornare solamente quando ci sentiremo effettivamente pronti.
E tutto il lavoro che c’è dietro al nuovo album “There Are Rules”?
Ci sono moltissime band che, nel corso della loro carriera, hanno fatto successo girando attorno alla stessa formula per anni e anni. A noi questo percorso non è mai piaciuto, perché vediamo la musica come un percorso di automiglioramento. In “There Are Rules” abbiamo deciso di fare un album più organico e legato rispetto al passato, e per questo abbiamo utilizzato una registrazione in presa diretta, che ci ha permesso di ottenere un sound più vivo e “umano”. Il contrario di quanto avviene al giorno d’oggi: le voci perfette ottenute con effetti come l’autotune sono gli esempi di una deriva che non abbiamo mai apprezzato.
Come mai non avete scelto il percorso dell’autoproduzione per “There Are Rules”, viste le tecnologie messe a disposizione da Internet negli ultimi anni?
La tua domanda non è del tutto esatta: l’etichetta Quality Hill Records è in realtà di nostra proprietà. Anche il precedente EP “Simple Science” lo abbiamo autoprodotto, ma siamo stati costretti a cambiare nome della label perché esisteva già una Flyover Records. La nostra è stata un’idea coraggiosa, ma per il nostro prossimo disco programmeremo il ritorno ad una casa discografica vera e propria. L’autonomia è buona quando stai scrivendo le canzoni, ma poi per la promozione e i vari tour è sempre meglio avere alle spalle gente esperta e che lo faccia di professione. Attualmente abbiamo un’attitudine molto punk rock: al momento i The Get Up Kids non hanno un vero e proprio manager alle spalle, e ciò ci rende, agli occhi di alcuni, una via di mezzo tra una band amatoriale e una professionista.
“There Are Rules” arriva a sette anni da “Guilt Show“. Come sono cambiate le vostre vite dal 2004 ad oggi?
E’ molto strano pensare che la nostra band, anche dopo una pausa così lunga, sia nata ben sedici anni fa, è una cosa sulla quale ho pensato più volte e che molto spesso non sono ancora capace di realizzare. In sette anni ti può succedere di tutto: personalmente sono diventato padre e mi sono avvicinato alla musica in modo più professionale, c’è chi ha inaugurato la sua etichetta discografica e chi ha suonato con altre band. Un periodo così lungo, trascorso con altre persone e con i tuoi affetti, è stato come un’iniezione di positività nel rapporto tra di noi. Però la cosa più importante, per quanto mi riguarda, è che dopo tutto questo tempo siamo diventati più vecchi, saggi e ci capiamo meglio rispetto al passato. La pausa è nata proprio per questa ragione: abbiamo avuto la consapevolezza della necessità di fermarci per un po’ di tempo.
Nel decennio dei grandi budget per la pubblicazione di dischi, voi avete debuttato con “Four Minute Mile”, disco registrato con un budget ridotto e in pochissimi giorni. Come vedi il cambiamento radicale del mondo dell’industria musicale degli ultimi anni?
E’ cambiato tutto, non ci sarebbe altro da dire. Il digitale, e non parlo solo delle registrazioni degli album, è stato una vera rivoluzione: prendi i social network come Twitter e Facebook, il loro ruolo è quello del passaparola del passato, solo che il massimo risultato lo ottieni in minor tempo e con una spesa ridotta. Non voglio discutere del fatto che tutto ciò sia giusto o sbagliato, ma ben venga che questi strumenti servano per promuovere la buona musica. Dal punto di vista personale, queste cose mi interessano in maniera relativa: sicuramente non sono come certi artisti che mandano diversi tweet nel corso della giornata. Non sono così narcisista e non credo che alla gente interessi cosa sto facendo alle due del pomeriggio. Probabilmente sono figlio di un’altra generazione, quella non cresciuta con Facebook.
E come vedete il fatto che molti musicisti, come Mark Hoppus dei Blink 182, vi citano come un’importante influenza? Non vi sentite sottovalutati?
Non lo so; sicuramente è stata una fortuna, per me, riuscire a mantenermi grazie alla musica. Non abbiamo venduto milioni di dischi e non siamo milionari ma, anche se qualche soldo in più può tornare utile, perché ti rende la vita più facile, mi ritengo comunque un privilegiato. La tua è una domanda interessante: dal punto di vista artistico, ho l’impressione di avere ricevuto molti apprezzamenti nel corso della mia carriera, e ciò mi basta, perché la storia è piena di band sconosciute che hanno ispirato musicisti e gruppi che poi sarebbero diventati delle vere e proprie superstar.
Nicola Lucchetta