Esce oggi nei negozi il secondo album degli olandesi Destine. “Illuminate” è un lavoro che ha le carte in regola per lanciare il quintetto di Tilburg nei cuori dei teenager affezionati al pop punk. Sì, perché anche loro battono gli stessi territori di nomi come You Me At Six, All Time Low e All-American Rejects, con canzoni semplici, efficaci e ruffiane. Dieci pezzi che non rivoluzioneranno la musica, ma che suscitano comunque un certo interesse.
Sì, perché la proposta dei Destine risulta comunque un po’ meno standardizzata rispetto alle altre band: sarà che non provengono da Stati Uniti o Regno Unito, ma “Illuminate” suona più fresco e ricercato, grazie a delle ottime intuizioni a livello melodico e quell’inserto di tastiere che toglie quel senso di vuoto che spesso compare in una formazione rock “classica”. E non è un caso che per il ritorno discografico i Nostri abbiano coinvolto quel David Bendeth che contribuì a creare il fenomeno Paramore lavorando in cabina di regia su “Riot!”. Fondamentale il suo contributo a livello musicale: i suoni sono potenti ma delicati, rock ma senza disdegnare quella natura pop necessaria per “sfondare”.
Cosa da non sottovalutare è che i Destine hanno in canna quei singoli capaci di sbancare: l’opener “Four Leaf Clover” e “Stay” si reggono su due notevoli ritornelli e “Unbreakable” è con molta probabilità il pezzo migliore del lotto. Escludendo l’inevitabile aria di già sentito che spesso si respira nei quasi 40 minuti di “Illuminate“, i Destine hanno un solo difetto: sono troppo deludenti nelle ballad, al punto che le poche presenti sono dei veri e propri riempitivi e l’unica che potrebbe funzionare, “All The People“, è un palese tributo ai Coldplay.
Non parliamo di qualcosa di imprescindibile, ma “Illuminate” presenta comunque delle peculiarità che lo rendono più interessante della media delle band del filone salite alle luci della ribalta negli ultimi 18 mesi, forte di una produzione ben calibrata e delle ottime idee a livello di arrangiamenti.
Nicola Lucchetta