Non tutto il post rock viene per nuocere. In fondo, diciamocelo, quante sono le band post qualcosa che suonano tutto tranne che contemporanee e che danno l’idea di guardare al passato quando non solo a sé stesse? Poche, va riconosciuto. I Pharm sono fra quelli che conservano uno sguardo sull’altrove (contemporaneo? Futuro?) e in uno stesso disco possono far finta di essere dei Primus inaciditi (“Sorbetto”) o flirtare col jazz di coltreiniana memoria (“L’Africano”) o magari iniziare a fare a pugni con l’elettronica (“Buone Cose A Lei”) o mischiare di tutto in un trip lisergico al limite del rumoristico spacca cervelli (“Western Machines”) o farci viaggiare nello spazio a suon di theremin (“Joe Chip”) o buttarci a tradimento dentro trame ambient (“Q”)
E non si faccia l’errore di presumere che i Pharm si siamo limitati a un pout-pourri senza né capo né coda! I Pharm sono gente onesta e se da un lato ci evitano l’inutile ripetizione dello stesso concetto per più brani, dall’altro sono riusciti a creare un unicum, o se preferite una formula che pur partendo da infinite sfaccettature sonore, produce un suono omogeneo e coerente. E questo probabilmente, appare ancora più evidente quando, impavidi, premiamo nuovamente play lasciandoci di nuovo precipitare nel cosmo dei Pharm consci di quello che stiamo per trovare.
Un disco per intrepidi, per amanti del genere, per patiti della sperimentazione o semplicemente per chi si annoia delle solite cose. Promossi col massimo dei voti.
Stefano Di Noi