Intervistare il cantante del Teatro Degli Orrori Pierpaolo Capovilla (esperienza che abbiamo già vissuto un paio di volte in passato) è una delle maggiori soddisfazioni che un giornalista musicale può vivere nel panorama italiano: persona dotata di vasta cultura, con le idee ben chiare e con un modo di porsi a tratti nervoso ma sempre intelligente e dotto, Pierpaolo analizza con ironia e ampie motivazioni tutte le domande che gli vengono poste, anche quelle più “scomode”. A pochi giorni dalla pubblicazione di “Dal Vivo“, il loro primo live album distribuito in esclusiva dalla rivista XL, e a poche ore dal loro slot da headliner al festival La Tempesta Al Rivolta di domani sera, vi proponiamo in una versione quasi integrale la chiacchierata che abbiamo fatto con il carismatico frontman la scorsa primavera, nella prima parte del tour di supporto a “Il Mondo Nuovo“.
Un disco che è nato dopo un periodo per voi travagliato, che vi ha visto suonare parte del tour di “A Sangue Freddo” con dei turnisti per poi tornare in studio con la lineup “storica”. Come mai questo ritorno alle origini?
Prima di tutto in formazione abbiamo visto l’ingresso di altri due componenti: Kole Laca alle tastiere e Marcello Batelli alla chitarra. Tornando alla tua domanda, Giulio (Favero, bassista ndr) se ne andò e noi l’abbiamo fatto ritornare, tutto qua. Ci sono stati dei casini tra di noi, siamo uomini e non siamo dei robot: le persone possono vivere le loro vite e le situazioni professionali con le loro inquietudini, le loro ansie. Si può non andare d’accordo, si possono avere momenti di crisi. Io sono felice perché ho lottato personalmente perché ritornasse quella lineup, e il fatto che siamo qui adesso a parlare di una tournée che sta andando benissimo mi rende fiero: c’è un pubblico molto più ampio ai nostri spettacoli e la partecipazione è più calda, anche perché molti nutrono aspettative nei nostri confronti. Insomma, posso dire di essere un uomo felice in questo momento, anche perché i nostri rapporti si sono rimodulati nel segno di una reciproca stima e consapevolezza delle nostre ambizioni. Siamo persone molto ambiziose, vogliamo fare grandi cose.
Parlando di ambizione.. non hai l’impressione, a freddo, che “Il Mondo Nuovo” sia il vostro lavoro più coraggioso?
Come ti ho detto poco fa, siamo personaggi molto ambiziosi, visto che pretendiamo molto da noi stessi. E’ chiaro che “Il Mondo Nuovo” sia il nostro disco più ambizioso, non a caso è un concept album incentrato sul tema della figura del migrante, nel quale il rischio di essere retorici è fortissimo. Credo di aver corso questo rischio con successo.. penso sia il nostro miglior disco di sempre. All’inizio volevamo citare De André e il suo “Storie Di Un Impiegato”; la cosa era decisa ma, dopo una discussione in studio, siamo giunti alla conclusione che forse non era una buona idea. Appena ci siamo accorti che nella band è iniziato a serpeggiare il dubbio su una citazione così forte, abbiamo preferito ad un titolo così citazionistico un altro altrettanto citazionistico, “Il Mondo Nuovo” di Huxley, ma più allegorico e metaforico, e anche più “nostro”. Questa scelta continua la nostra tradizione di citare le grandi opere letterarie: dal Teatro Degli Orrori ai One Dimensional Man questa è per noi una mania.
Avete lanciato il nuovo album con il video di “Io Cerco Te”, che sembra all’apparenza un lavoro low budget. E’ per caso figlio della crisi?
Siamo tutti figli della crisi, e soprattutto anche chi guarda questi video. E lo sai perché? Perché nessuno è riuscito a cogliere il lato fondamentale di questo video, il suo forte contenuto narrativo se vogliamo, perché è un’esperienza di forte coralità. E i personaggi, i soggetti, gli attori che sono davanti a questa reflex sono tutte delle persone speciali, scelte perché ognuno ha una storia importante alle sue spalle. Storie politiche sofferte, artisti e musicisti noti a livello internazionale.. il tutto cercando di inserire anche classi sociali diverse: trovi infatti la direttrice del settore marketing di un’enorme azienda del trevigiano, la militante lesbica, il punk, colui che è stato in prigione, ex di Lotta Continua. Mancano le strafighe, abbiamo voluto dire basta a questi stereotipi milanesi! Tutto questo è stato poi interpretato come un video figlio di una mancanza di mezzi e di idee. Ma, francamente, dei miei detrattori non me ne frega un cazzo, prima di tutto. Inoltre, se scarichi il video in alta definizione potrai notare, analizzando le sequenze fotogramma per fotogramma, che c’è un bel pizzico di arte contemporanea, ma di quella seria. Quindi cosa ti devo dire? Che i figli della crisi sono in realtà quelli che non sanno interpretare le cose perché hanno fretta di sparare cazzate. Non ci sono personalismi o dietrologie in questa mia affermazione, e neanche delle accuse nei tuoi confronti: semplicemente mi duole questa pigrizia intellettuale troppo diffusa in questi anni, nei quali grazie ad Internet puoi arrivare dove vuoi. E noi cosa facciamo? I criticoni. “Questo mi piace”, “Questo è una merda”: ho letto in giro delle cose spaventose ed ingiuriose. Mi dispiace vedere l’arretramento culturale di questo paese, figlio inevitabile della distruzione sistematica della cosa pubblica degli ultimi trent’anni.
Pur suonando più vario rispetto al passato, “Il Mondo Nuovo” è ancora radicato alle sonorità alternative rock americane. Perché siete arrivati a proporre una cover degli Shellac?
Perché l’alternative rock americano è nei nostri cromosomi e, inevitabilmente, volevamo suonare proprio una cover degli Shellac per farli conoscere ai giovani italiani. Sai cosa volevamo fare al posto di questo disco? C’era balenata l’idea di fare un disco di cover di Shellac, Jesus Lizard, Fugazi, prendendole e riadattandole in lingua italiana. Volevamo far conoscere soprattutto il contenuto poetico/narrativo dell’hardcore americano, che è fantastico e, per quanto feroce ed incazzatissimo, ti fa piangere se vai a fondo nel testo. Alla fine saltò tutto perché il progetto risultava troppo complicato.
E perché in un disco “world music” nel senso più ampio del termine, nel quale convivono hard rock, elettronica, musica africana, avete chiuso con un brano dedicato alla vostra Treviso?
Perché è la mia città, nella quale ho vissuto l’adolescenza ed è stata la città dei miei genitori. Io sono figlio di migranti: sono un veneto purosangue ma sono nato a Varese perché, fino all’inizio degli anni Settanta, il Veneto era una regione povera e rurale che stava affrontando la sua fase preindustriale. Mio padre era un operaio nel settore degli altiforni e trovò lavoro proprio nella città lombarda. “Vivere E Morire A Treviso” è una dichiarazione d’amore che ho voluto scrivere a mio padre e mia madre: è una cosa che non ha capito nessuno, ma effettivamente è difficile da cogliere se non viene esplicitata. Mi ha stupito un’interpretazione fatta da un altro giornalista, che aveva visto in questo testo significati che onestamente non avevo neanche immaginato. Sarà che nella stesura dei testi mi piace lavorare con iperboli ed allegorie, e questa cosa può portare ad interpretazioni plurime. Se dovessi lanciare un messaggio diretto con un telegramma farei prima. Il processo creativo di un disco non deve essere esclusiva di un artista ma deve dare delle possibilità di riflessione anche a chi ascolta.
“Cuore D’Oceano”, il brano in collaborazione con Caparezza e Aucan, suona troppo slegata rispetto agli altri brani. Qual è stato il vostro contributo in questo pezzo?
Praticamente nullo. L’idea iniziale la partorì Giulio un paio di anni fa. Poi devi sapere che Giulio adora collaborare assieme ad altri stimati artisti, al punto di chiedere una mano agli Aucan per spingere il pezzo più sull’elettronica. L’aiuto di Caparezza è nato spontaneamente, poiché è un nostro fan della prima ora e ci conosciamo da molto tempo. E’ un modo di operare in linea con il nostro pensiero: a noi piace cooperare, non solo fra di noi ma anche con altri artisti. La cooperazione è ciò che sta sempre più mancando nella società di oggi, nelle nostre vite. Lo stato di cose in cui viviamo prevede che vengano assegnati dei compiti da uno che comanda. La cooperazione, invece, prevede la definizione di obiettivi comuni e la collaborazione per raggiungerli: si chiama democrazia. Per me, guarda, il rock è stato una palestra di democrazia, in tutta la mia vita.
A livello contrattuale tenete i piedi su due paia di scarpe: siete prodotti da La Tempesta ma distribuiti da una major come Universal..
Chiariamo le cose: noi siamo autoprodotti da sempre. Lo abbiamo sempre fatto e ci mettiamo i nostri soldi. Il ruolo de La Tempesta è di coordinare i nostri lavori e ci aiuta moltissimo: siamo fieri di far parte di questo collettivo. Universal ci distribuisce i dischi e acquisisce la parte editoriale del diritto d’autore, pagandocela. Con gli anticipi sulle vendite del primo mese, e più precisamente dei diritti editoriali e dei copyright, ci siamo presi dei soldi con i quali ci siamo pagati lo studio di registrazione. Ci siamo stati ben 45 giorni; non posso dirti quanto abbiamo speso in totale, ma stai sicuro che ne abbiamo spesi così tanti, svuotando i nostri conti correnti e utilizzando i soldi di Universal per arrivare a questo risultato. Dunque, non abbiamo un piede di qua e un piede di là: con Universal abbiamo un rapporto strumentale. Usiamo Universal per arrivare a raggiungere i nostri obiettivi, tutto vero. Poi c’è anche un altro aspetto della questione: che in questa major lavora Claudio Klaus Bonoldi, il nostro interlocutore che è un nostro caro amico, crede in noi e con lui abbiamo un rapporto umano amichevole. Non vedo nulla di sbagliato in questa strategia, che non è solamente nostra ma è del 99% dei gruppi italiani. Ma come si fa a dire “ragazzi, vi siete venduti a Universal!”, quando “Il Mondo Nuovo” è il quarto disco che faccio con loro? Ma non potevate accorgervene prima? E’ tutto a portata di clic, sveglia ragazzi! Anche questa cosa è la dimostrazione dell’arretramento culturale dei tempi moderni. Avessi avuto Wikipedia io a vent’anni probabilmente non farei questo lavoro, farei qualcosa di più serio. Internet è un’importante fonte di cultura e la gente perde le giornate nei social network. McLuhan già nel 1943 spiegò che il media è il messaggio. La diretta conseguenza del suo pensiero è che Internet perde il suo ruolo di rete informativa, ma diventa una rete da pesca dove si abbocca. Le nostre solitudini non le emancipiamo con i social network: bisogna tornare nelle vere agorà, nelle strade, nelle piazze, tra di noi. Quando vogliamo invece chiuderci nella nostra cameretta leggiamo un buon libro, possibilmente un classico. Sembro anacronistico vero? Sono troppo vecchio per queste cose.
Nicola Lucchetta