E’ uscito ieri nelle sale statunitensi (e in digital download per diversi mercati, tra cui quello italiano) “Sound City Movie“, l’attesa pellicola ideata e diretta da Dave Grohl nella quale vengono celebrati i Sound City, rinomato studio di registrazione californiano nel quale sono stati registrati molti dei capitoli più importanti della storia della musica degli ultimi quarant’anni. Una storia travagliata, che dai fasti degli anni Settanta ha portato ad una crisi che sembrava definitiva negli anni Ottanta, periodo di ampia diffusione del digitale, con una fase di ritorno in auge negli anni Novanta, quando in quello che è un vero e proprio rigetto l’analogico tornò a ricoprire un ruolo di primaria importanza. Fino al 2011, anno nel quale i Sound City Studios chiusero i battenti.
Sound City Studios che, in una lettura più profonda della pellicola, è il contenitore di quelli che sono i due veri artefici del successo di una realtà indipendente capace di combattere con i colossi della discografia: in un edificio fatiscente sono infatti inclusi lo Studio A, nato come magazzino ma dotato di una sorprendente qualità a livello acustico, e la console Neve 8028, mixer analogico hi-end descritto con precisione tecnica già nei primi minuti della pellicola ad un Dave Grohl che, avendo “abbandonato la scuola in giovane età”, spesso non capiva al primo colpo alcune specifiche elencate dal produttore inglese Rupert Neve. Un investimento a prima vista azzardato (i circa 75000$ dell’epoca erano una somma ingente, paragonabile al costo di due piccoli appartamenti in una città di periferia), ma che ha dato alla conta finale ottimi risultati.
I primi settanta minuti del film sono quelli nei quali viene dato ampio spazio alla musica registrata, con interviste a tecnici, addetti ai lavori e soprattutto ai musicisti entrati ed usciti nei quarant’anni di storia, suggellati da diversi dischi di platino esposti nei corridoi e nelle sale d’ingresso. Con il canadese Neil Young a dare inizio alle danze (in California registrò alcune parti del suo terzo disco “After The Gold Rush”), lo status di culto arrivò solamente a metà degli anni Settanta, quando i Fleetwood Mac registrarono nel 1975 il loro secondo album omonimo. Proprio perché il lavoro della band anglo-americana è stato il primo importante capitolo dei Sound City Studios, Grohl decide di dedicare loro un’ampia parte del minutaggio del documentario, con interviste al batterista Mick Fleetwood, alla cantante Stevie Nicks e al chitarrista Lindsey Buckingham, gli ultimi due entrati in line-up proprio poche settimane prima.
Dopo un periodo di crisi negli anni Ottanta, sarà proprio quel “Nevermind” che lanciò nel music biz lo stesso Grohl a rilanciare gli studios che, nel decennio precedente, riuscirono comunque a stringere importanti collaborazioni con Rick Springfield e con Tom Petty e i suoi Heartbreakers. Gli anni successivi alla registrazione del capolavoro dei Nirvana sono un lungo canto del cigno: non bastano infatti i Rage Against The Machine nei Sound City per registrare il loro debutto (“perché lì venne registrato ‘Nevermind'”, afferma lo stesso Brad Wilk) insieme a degli amici, l’unanime riconoscimento di diversi produttori discografici (tra cui Butch Vig, Rick Rubin e Nick Raskulinecz) e altri gruppi come Kyuss, Pixies e Nine Inch Nails (Reznor a metà dello scorso decennio registrò in California le parti di batteria per il disco “With Teeth”) per risollevare un declino inarrestabile che sarebbe culminato nel 2011 con la definitiva chiusura.
Fino a qui siamo di fronte al più onesto e sentito omaggio ad un importante capitolo della storia del rock americano da uno che in quei posti ha scritto la pagina iniziale di vita artistica. L’ultima mezz’ora è, purtroppo, in bilico tra l’ancora più sentito tributo alla figura dei Sound City Studios e una velata autocelebrazione che mai ci saremmo aspettati da un tipo con i piedi per terra come Dave Grohl. La parte “debole” dei 100 minuti di documentario, infatti, inizia con il membro dei Foo Fighters che acquista, nel 2011, la console Neve 8028 e diverse altre attrezzature a seguito del fallimento; nelle settimane successive nasce, oltre alla lavorazione del documentario, anche il progetto di registrare un disco con quell’apparecchiatura, ormai vintage ma ancora pienamente funzionante, coinvolgendo una serie di musicisti con trascorsi negli studios Sound City. Un progetto discografico che vedrà la luce a marzo 2013 e che presenterà anche un’icona universale del calibro di Paul McCartney per quella “Cut Me Some Slack” già presentata in passato e alla quale è dedicato l’ultimo atto del film.
Sia chiaro: indipendentemente dall’ultima mezz’ora, “Sound City Movie” è un documentario assolutamente da non perdere per chiunque si professi seguace del Vangelo del rock. Ed è, alla conta dei fatti, la migliore pellicola sul mondo della musica dai tempi di “Quasi Famosi” di Cameron Crowe.