“Paramore“, il quarto disco omonimo della band capitanata da Hayley Williams, è nato denso di aspettative da parte dei fan e della carta stampata per tre ragioni. Prima: arriva dopo il clamoroso successo di “Brand New Eyes“, terzo full length che li ha letteralmente catapultati nelle vette dello showbiz, soprattutto in Regno Unito (dove sono delle vere e proprie istituzioni) e negli States. Seconda: è il primo disco senza i fratelli Farro in lineup, componenti che, pur non godendo del fascino mediatico della rossocrinita cantante, avevano un peso specifico notevole in sede di songwriting. Terza: il “Singles Club”, raccolta di tre inediti pubblicato nel 2011, e quella “Monsters” scritta per la colonna sonora del terzo episodio del franchise “Transformes” ci aveva mostrato un gruppo capace di scrollarsi di dosso proprio la pesante ombra dei fratelli Farro.
Tanto per tagliare già da subito la testa al toro: questo quarto capitolo della loro carriera non convince. E per un semplice motivo: mancano quei tre singoli clamorosi capaci di catalizzare l’attenzione dei fan e che hanno caratterizzato le precedenti release. Non c’è una “Pressure“, ma neanche una “Misery Business” e nemmeno una “Brick By Boring Brick“: manca all’appello quel gruppo di brani capace di lanciare da solo un intero disco. Sia chiaro: “Now” è un’ottima scelta come singolo di lancio, grazie anche ad un anthem fin troppo attuale, il coro gospel in “Ain’t It Fun” è una trovata tanto semplice quanto geniale, il nuovo singolo “Still Into You” è il collegamento tra l’evoluzione pop e la spensieratezza dei primi lavori e la coppia centrale “Anklebiters” / “Proof” ci presenta un gruppo che quando vuole ha ancora ottime cartucce in testa. Il punto è che tutto il resto viaggia dalla sufficienza in giù: “Fast In My Car” è senza ombra di dubbio il peggior incipit di un album della loro carriera (“All We Know“, “For A Pessimist, I’m Pretty Optimistic” e “Careful” un brano di quel calibro se lo mangiano), gli Interlude con l’ukulele allungano il brodo in maniera non necessaria e fin troppo pretenziosa e, soprattutto, la conclusiva “Future” è un filler di nulla cosmico della durata di quasi otto minuti.
“Paramore” è, per il terzetto di Franklin, un disco di transizione: tante ombre, e sorprendentemente collocate in quell’inizio e fine punti di forza di ogni loro release, ma anche diverse “luci” che ci presentano un gruppo che, con l’aiuto di un produttore giusto, ha i numeri per sfoderare un potenziale devastante. Nella speranza che il gruppo non imploda, facendo cadere la stessa Hayley Williams nella trappola di una facile e lucrosa carriera solista, o, peggio, scenda al punto di scrivere un “Riot Strikes Back“, una sufficienza sulla fiducia se la meritano, anche solo per il coraggio di mettersi in gioco e dare una svolta “a U” alla loro già fortunata carriera.