Spariamola altissima già da subito: i Pearl Jam a Trieste hanno fatto meglio rispetto all’incredibile serata di San Siro. Una performance, quella nel capoluogo giuliano, che alza l’asticella e consacra definitivamente tra i “very big” Eddie Vedder e soci: con qualche anno di ritardo rispetto al resto del mondo, ora anche nel nostro Paese i ragazzi di Seattle rientrano nella ristretta cerchia di band capaci di riempire gli stadi.
Un po’ come avvenuto tre anni fa con Bon Jovi a Udine, la performance dei Pearl Jam nella sua prima fase non aveva le caratteristiche per restare nella memoria: un inizio fotocopia a quello di Milano con inizio in semiacustico e “Why Go” che arriva come un carro armato tra i trentamila presenti con tanto di volumi sparatissimi. Ok anche per la tripletta “Animal”, “Corduroy” e “Getaway” piazzata subito dopo, ma si era di fronte a standard qualitativi che ci si aspetta da colossi del rock del loro calibro. Il ricordo del Meazza era ancora troppo forte, e a rimarcarlo è stato lo stesso Eddie Vedder in un discorso in italiano nel quale ha affermato di aver bevuto “un po’ troppo” durante lo show di San Siro.
L’ago della bilancia, quell’evento che ha fatto svoltare la serata da “normale” (sempre che di normalità si possa parlare con i Pearl Jam) a “leggendaria” è arrivato a metà della setlist, più precisamente quando Eddie ha ricordato il decesso del suo migliore amico alcuni giorni fa. Un evento che lo ha particolarmente scosso e che lo ha spinto a dedicargli la successiva “Come Back“. E magia fu: lo Stadio Nereo Rocco illuminato da accendini e più moderni flash LED degli smartphone ha dato inizio alla parte memorabile del concerto, facendo scattare quell’empatia tra band e fan che fino a prima, dobbiamo essere sinceri, non era mai emersa.
Da lì in avanti è un flusso di emozioni senza fine: “Even Flow” è il primo chorus che ha fatto veramente esplodere lo stadio, “Do The Evolution” è una scarica di rabbia primitiva trascinata dal ruggito di Vedder e il doppio encore è così ricco di aneddoti che ci vorrebbe un articolo dedicato solo per quelli. Basterebbe solamente il fatto che, al contrario di San Siro, “Chloe Dancer” e “Crown of Thorns” dei Mother Love Bone stasera sono state suonate; ma ci sbilanciamo ulteriormente nei dettagli dicendo che “Alive” e “Rockin In The Free World” (che, non ne voglia il buon Neil Young, ma ormai i Pearl Jam hanno fatto loro questo classico), suonate insieme alla conclusiva “Yellow Ledbetter” a luci accese, sono state cantate così forte che l’eco è arrivato fino alla vicina Capodistria.
Da buon concerto rock, la performance dei Pearl Jam non è stata esente da difetti, l’ultimo dei quali è una cosa “storica”: se proprio ci mettiamo a contare i peli nell’uovo, dalle tribune laterali gli assoli di Mike McCready non sono quasi mai pervenuti, la qualità dei suoni è stata piuttosto altalenante e, tolti Eddie Vedder e quel dio dorato di Matt Cameron dietro le pelli, gli altri tre componenti non hanno brillato in quanto a carisma. Nonostante ciò, i Pearl Jam sono riusciti a confezionare uno show da incorniciare. Lo avevano detto e lo hanno confermato: i due eventi negli stadi italiani sarebbero stati memorabili, e lo sono stati. Sei ore di musica suonata e sudata della quale siamo già in astinenza (anzi, se a qualcuno potesse interessare, per Milton Keynes ci sono ancora posti disponibili).
Fun fact: sarà stata una piccola ricompensa per la “concessione” di Matt Cameron in questo tour europeo, ma durante la serata tra i membri dei Pearl Jam sono state indossate almeno un paio di tshirt dei Soundgarden. Anche se la migliore resta quella indossata dal percussionista dal primo all’ultimo secondo dello show, caratterizzata da un “Total Fucking Godhead” (cit. di Bruce Pavitt, fondatore della SubPop) piazzato sul retro ripreso dalle telecamere più e più volte.
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