D’Angelo è riuscito in una delle imprese più difficili del terzo millennio. No, non pubblicare un disco a sorpresa: primo perché Beyonce lo fece già ben prima di lui, secondo perché Questlove (batterista dei The Roots e coproduttore del progetto) tre anni fa annunciò che il disco di fatto era già pronto. Un lungo ritardo dovuto a problemi di salute che lo costrinsero a cancellare un tour nel 2012. L’obiettivo era ben più arduo: mettere d’accordo tutti. E lo ha fatto con “Black Messiah”, album che, non esageriamo, è tra le cose più clamorose degli ultimi quindici anni. Guarda caso, il tempo trascorso prima di dare un seguito a “Voodoo”, anno domini 2000.
La terza fatica in due decenni del crooner di Richmond si pone in netto contrasto con il revival del lato più commerciale ed elegante della Motown sdoganato da artisti come Bruno Mars e Pharrell Williams: quello proposto da D’Angelo è infatti un RNB sporco e lento. Come se avesse preso decenni della tradizione musicale black e li avesse contaminati con la psichedelia, il gospel e il jazz. Una fusione tra il Marvin Gaye di inizio carriera, le sperimentazioni dei Funkadelic, il Prince degli esordi e le colonne sonore blaxploitation. Il tutto con una produzione analogica; immaginatevi un D’Angelo che se ne strafrega di quanto è stato prodotto nel Terzo Millennio ed eccovi “Black Messiah”, un album non di facile assimilazione (servono diversi ascolti, non c’è dubbio) ma dal quale traspare il genio incompreso e sregolato di un autentico talento capace di mettersi attorno un team di primissima qualità.
Non c’è niente da dire: “Black Messiah” è un autentico capolavoro. Difficile trovare di meglio nella musica nera nel Terzo Millennio. E ben vengano le lunghe attese, in questi casi. A D’Angelo servono quindici anni per fare un altro capolavoro? Nessun problema: ci risentiamo nel 2030.