Ci voleva Steve Albini per svelare il bluff che sta attorno al miliardario business dello streaming musicale (così succoso al punto che la stessa Apple si è comprata la Beats di Dr. Dre più per il lato applicazione web, pronto ad essere rilanciato in scala globale a brevissimo, che per le iconiche cuffie) e, più precisamente, all’ultimo arrivato Tidal, la piattaforma acquisita da Jay Z a inizio anno e inaugurata lo scorso febbraio in pompa magna. Non sapete di cosa parliamo? Bene, qui trovate due righe di approfondimento.
Le parole dell’artista di Chicago sono le ultime arrivate in ordine cronologico. Nei giorni scorsi già altri suoi colleghi si sono sbizzarriti nel criticare Tidal. Ve li riportiamo qui sotto:
BEN GIBBARD (DEATH CAB FOR CUTIE): “Penso che questa cosa abbia mandato fuori di testa una serie di milionari e miliardari, al punto di salire su di un palco a lamentarsi di non essere pagati.”
MARCUS MUMFORD (MUMFORD AND SONS): “Non ci saremmo mai uniti a questo progetto, in ogni caso, anche se ce lo avessero chiesto. Non vogliamo fare parte di una tribù. Credo che le band più piccole debbano essere pagate di più, poco ma sicuro. Artisti più rinomati hanno diverse strade per far soldi, non capisco perché si lamentino. Una band della nostra importanza non dovrebbe lamentarsi. E quando si parla di una piattaforma posseduta dagli artisti, poi ti trovi davanti gente già ricca e benestante.”
LILY ALLEN: “Offrire materiale in esclusiva dai nomi più noti in una piattaforma a pagamento: anche se posso essere d’accordo con le loro intenzioni, questa cosa mi sa che porterà la gente di nuovo ad attingere da siti pirata e Torrent. Amo Jay Z ma Tidal è troppo caro se confrontato con altri ottimi servizi. Prendendo alcuni dei più grandi artisti e facendoli diventare esclusive di Tidal, porterà le persone a cercare questo materiale esclusivo in siti pirata o scaricandolo tramite Torrent.”
Per chi, dopo queste righe, si chiedesse ancora chi fosse questo Steve Albini, ve lo descriviamo in quattro semplici punti:
– pur essendo al di fuori dei circuiti mainstream, è una delle figure più importanti del panorama musicale degli ultimi trent’anni
– è un produttore della Madonna e uno dei tre componenti di quel gruppone chiamato Shellac
– buona parte della botta di “In Utero”, ultimo disco dei Nirvana, è dovuta al suo lavoro in banco di regia
– se non bastasse, ha collaborato con alcuni dei nomi più importanti dell’alternative rock contemporaneo, influenzando generazioni di ascoltatori, musicisti e addetti ai lavori. Alcuni nomi? Jesus Lizard, Jon Spencer Blues Explosion, Fugazi, Bush, Pixies, Neurosis, Mogwai.
Riassunto: non è l’uomo della strada che si inventa grande produttore perché è in grado di indicarti la levetta del volume master in un mixer.
L’occasione è una recente intervista che Steve Albini ha fatto con Lauretta Charlton del magazine Vulture. È sempre cosa buona e giusta parlare con una figura di questo calibro (davvero), soprattutto perché ci si trova di fronte ad una persona che conosce il mestiere, ne è sempre stato critico ma ha anche l’occhio lungo quanto basta per capire le nuove potenzialità. E lo si capisce quando afferma che “lo streaming è, come lo sono stati il CD e un registratore ad otto tracce, uno sviluppo temporaneo di un lungo percorso di nuove tecnologie che rendono più accessibile la friuzione di musica“, immaginando su due piedi un app che, scelto un pezzo, lo cerca in automatico in Internet attingendo dai vari servizi. Un servizio dalle potenzialità enormi che, ad oggi, potrebbe venire sviluppato solo da Google.
Introducendo il suo ragionamento con la definizione di Tidal come una versione povera di Pono (vi siete dimenticati anche di questo? Non preoccupatevi), Albini gioca da subito la carta più pesante, facendo crollare quel punto di forza di Tidal chiamato streaming di alta qualità. Vi riportiamo la citazione più o meno letterale qui sotto:
Se qualcuno sta cercando la qualità assoluta, si rivolgerà di sicuro al vinile. Per la stessa ragione, usufruire di questo Tidal sarebbe come avere in salotto un monitor che trasmette ad altissima definizione immagini di dipinti. Per quanto la cosa possa essere resa nella maniera il più realistica possibile, il vero appassionato di arte se ne frega: vuole possedere il dipinto fisicamente perché sa che vi è una connessione diretta con il suo autore. Questa storia dei monitor ad alta definizione può avere un mercato, ma non è lo stesso di coloro che vogliono possedere l’arte.
Leggasi: avere in mano un CD o un vinile, o nell’ipotesi più moderna canzoni acquistate su HDtracks o Bandcamp salvate sul computer, non è la stessa cosa di ascoltare un file in streaming. Basti solo pensare che se dovesse esserci un blackout alla rete, l’utente si troverebbe impossibilitato a fruire di un servizio per il quale ha pagato denari sonanti (storia vera).
Come se non bastasse, quella cosa fondamentale per accedere allo streaming chiamata Rete che è anche quello stesso limite, e Napster insegna, che rende la diffusione dei contenuti, in maniera più o meno legale, facile come bere un bicchiere d’acqua. E la frammentazione dei servizi porterebbe ad un ritorno della pirateria, come “profetizzato” da Lily Allen e realizzatosi con i contenuti esclusivi di Rihanna e Beyoncé, apparsi poche ore dopo nei canali alternativi illegali. Intuizione avuta dallo stesso Albini:
La gente sta cercando di monetizzare un qualcosa che è in un flusso. Internet offre l’accesso a diverso materiale e altre cose. Creare dei piccoli feudi dove certi servizi hanno accesso a certi artisti e altri a diversi altri musicisti è, secondo me, una visione distorta della Rete. Ciò che Internet ha dimostrato negli anni è che è possibile rompere ogni limitazione ai contenuti.
Il ragionamento articolato di Steve Albini, e di altri suoi colleghi, lo si può riassumere in poche parole.
Ci può stare pagare una manciata di euro al mese per ascoltarsi della musica in metropolitana o in auto. Anzi, la mossa non avrebbe senso neanche per buona parte dei casual listener figli delle radio commerciali: ti scarichi Spotify Free, scegli una playlist a scelta e l’unico disagio che ti trovi davanti è un paio di spot ogni decina di pezzi. Ma spendere una ventina di euro per ascoltare a qualità altissima delle esclusive che, ad oggi, sono le ultime uscite di Rihanna e Beyoncé è una cosa da gente che non sa come spendere i propri soldi.
Anche perché, nella migliore delle ipotesi, il materiale è prodotto in maniera mediocre (usando un eufemismo) e ascoltato con le casse di un notebook o con le cuffiette date in dotazione con il cellulare. Due cose che cozzano, e non poco, con lo sbandierato concetto di alta fedeltà.