La vera sorpresa sarebbe stata un album figlio di un’era Britpop che ormai non esiste più, magari lanciato da un singolo emulo degli episodi più zuccherosi ed easy come una “Country House” o una “Charmless Man”. E invece no: la grandezza dei Blur arriva anche da questi piccoli dettagli, da una continua evoluzione artistica che li ha portati negli anni da una “There’s No Other Way” a dedicarsi alla politica (Dave Rowntree), ad una prolifica carriera solista (Graham Coxon), a fare il casaro (Alex James) e a collaborare con chiunque gli capiti a tiro (Damon Albarn). Che i Blur siano “nati per correre”, e non per cullarsi sugli allori, lo si era già capito da “Under The Westway” e “The Puritan”, i due pezzi che hanno inaugurato il nuovo corso della band londinese il cui percorso si chiude oggi con l’uscita di “The Magic Whip“.
Chi si aspettava, quindi, un “Parklife Part 2” si ritroverà tra le mani un figlio delle esperienze del Terzo Millennio di Graham Coxon e Damon Albarn, la metà del gruppo che dopo lo scioglimento post “Think Tank” (Coxon aveva già lasciato il progetto dopo “13”, ndr) ha operato in maniera più attiva nel mondo della musica. Un figlio dell’Asia, e non è un caso che tutto il concept grafico, dall’artwork allo spassoso video di “Go Out”, richiamino all’Oriente: “The Magic Whip” è infatti nato da una jam session ad Hong Kong di cinque giorni fatta nel 2013, registrazioni poi usate come punto di partenza da Graham Coxon e Stephen Streeth (produttore dell’era d’oro del gruppo, da “Modern Life Is Rubbish” a “Blur”) per quello che poi sarebbe diventato l’ottavo disco dei Blur. Perché, al contrario di quanto molte notizie avrebbero potuto far pensare, l'”azionista di maggioranza” questa volta è l’occhialuto chitarrista: fosse stato per Damon Albarn, infatti, il disco non sarebbe stato da fare e, molto probabilmente, la reunion del 2012-2013 sarebbe stata il canto del cigno della band.
Nessuna influenza dai singoli più acclamati degli anni Novanta, un peso non irrilevante dagli episodi più sperimentali di quell’era e un’altissima importanza ricoperta da quanto fatto dopo lo split del 2003: se si dovesse riassumere con una frase “The Magic Whip”, lo si potrebbe descrivere così. Non c’è del pop (in senso classico, una “Go Out” infatti ricorda un approccio al genere vicino a quello dei Pavement), c’è un’impronta inglese nel modo di scrivere musica (l’iniziale “Lonesome Street” e “Ong Ong”), gli episodi più sperimentali (“New World Towers”, la sognante “Pyongyang” e la conclusiva “Mirrorball”) e i momenti più movimentati, che spaziano dalla veloce “I Broadcast” ai ritmi di “My Terracotta Heart” e “Ghost Ship”, con l’ultima che ricorda molto quanto fatto dai Gorillaz, passando per il reggae di “Ice Cream Man”. Un lavoro ricco di episodi di spessore, povero (anzi, scarso.. toh, nullo) di filler, summa della carriera di un gruppo che ha sempre lavorato su più livelli, capace di raccogliere dietro la loro proposta gli amanti dei brani più radiofonici e i fedeli della musica indipendente. Un album che conferma, se qualcuno ancora avesse dei dubbi, il fatto che dal punto di vista artistico i Blur surclassano senza problemi i rivali dei Nineties che alla fine “hanno vinto” (gli Oasis), ma anche quelli da un’impronta più classica come Pulp e Suede.
“The Magic Whip” è ciò che il fan dei Blur con sale in zucca si sarebbe aspettato dalla band nel 2015. Un album più slegato rispetto ai lavori del passato, ma che presenta così tante sfumature che richiedono una lunga serie di ascolti per coglierle ed apprezzarle. Un ritorno che definire graditissimo è dir poco.