Lo Psycho Circus dei Kiss inizia a dare i primi pesanti segnali di cedimento. Il concerto portato dalla band newyorkese l’11 giugno 2015 all’Arena Di Verona (a ben sette anni dalla precedente tappa nell’Anfiteatro Romano, anno domini 2008) mostra un gruppo che è l’ombra del quartetto che passò per il nostro Paese due anni fa, una band che era già in calo ma che era ancora capace di tenere le redini del palco per due ore.
Che il giocattolo stia iniziando a scricchiolare lo si è capito soprattutto da alcuni problemi tecnici sorti durante la serata. Alcuni sono stati marginali e potevano essere colti solamente da un occhio attento, come ad esempio degli intoppi con i fuochi d’artificio o degli errori nella gestione delle luci, oltre al non trascurabile dettaglio del mancato volo sopra il pubblico di Paul Stanley su “Love Gun” (anche se in quel caso possono esserci di mezzo questioni di sicurezza).
Ben più evidenti i problemi di suono, gravi ed inspiegabili perché avere brutti suoni all’Arena di Verona è un evento da commemorare con una targa. Pur non essendo mai perfetti per tutta la serata (la batteria di Eric Singer non sarà praticamente mai valorizzata del tutto), l’impatto dei primi pezzi è stato imbarazzante: il risultato è stato un pastone quasi incomprensibile che ha penalizzato una prima parte di setlist da panico che presentava classici del calibro di “Detroit Rock City”, “Deuce”, “Psycho Circus” e “Creatures Of The Night” e fatto emergere in maniera evidente alcune “stecche” del gruppo. La svolta è arrivata con “Hell or Hallelujah”, unico estratto da “Monster” che si rivelerà, a livello di impatto, come uno degli episodi più riusciti della serata.
Salvando i comprimari di fatto Tommy Thayer ed Eric Singer, con il secondo sugli scudi autore di una buona performance tra pelli e backing vocals, i due storici componenti Gene Simmons e Paul Stanley non deludono le aspettative. Il bassista sfodera senza alcuna piega il suo repertorio di pose, dalle linguacce al fare lo sputafuoco, passando per il siparietto del sangue durante l’assolo di basso prima di “God Of Thunder”. Paul Stanley invece ripiega con il carisma gli evidenti limiti vocali: ma gli si perdona tutto, perché The Starchild è un guru assoluto del come ci si deve comportare su un palco.
La scaletta è breve ma di livello clamoroso: un’ora e quaranta nella quale han trovato spazio praticamente tutti i brani più conosciuti dei Kiss. Una scelta azzeccata, che viene incontro al pubblico più casual del gruppo, ma che potrebbe ritorcersi contro con devastanti effetti: ad oggi, il rischio che i Kiss diventino delle caricature, o peggio la tribute band di sé stessi, è cosa da non sottovalutare.
Fotografie a cura di Mathias Marchioni