I Refused presentano “Freedom”: “No, non ci siamo rotti di suonare New Noise ogni sera”

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Se non si fosse capito dopo il concerto al Rock Im Ring di Collalbo, Refused are fucking alive. Tornati dopo un silenzio durato quasi vent’anni, e con in mezzo un reunion tour di successo nel 2012, gli svedesi hanno pubblicato lo scorso 30 giugno “Freedom“, quarto studio album della loro carriera e primo per la storica etichetta indipendente Epitaph.

In occasione della loro performance da headliner nella seconda giornata del festival altoatesino, abbiamo incontrato nel backstage i due membri fondatori David Sandström e Dennis Lyxzén, batterista e frontman dei Refused, per parlare della nuova fatica senza dimenticare quanto fatto in poco più di un lustro negli anni Novanta.

Siete tornati nel 2012 per un reunion tour e, alla fine di quell’anno, avevate detto che l’esperienza Refused era finita. Nel 2014, invece, annunciate un nuovo album e un altro tour mondiale. Quali sono le ragioni che vi hanno spinto a questo secondo ritorno e perché in lineup non c’è il chitarrista Jon Brännström?
Dennis: Quando ci fu l’ultimo concerto del 2012 sapevamo benissimo che la storia dei Refused non sarebbe finita in quella serata, ma che sarebbe stata messa in standby per un periodo più o meno breve. Avevamo già iniziato a scrivere dei brani, ma il nostro obiettivo fin dall’inizio è stato fare in modo che restasse un segreto solo tra di noi e i nostri collaboratori più stretti fino a quando l’album sarebbe stato concluso, una cosa difficile ma alla fine credo che l’obiettivo sia stato portato a termine. Ma ripeto: nel 2012 non avevamo detto che sarebbe terminata la storia dei Refused, ma che in realtà si era chiusa questa fase. Quel reunion tour fu bello, ci furono molti concerti e ci divertimmo in giro per il mondo e, proprio in quell’occasione, scattò la scintilla per scrivere della nuova musica. Jon nel 2012 fu una delle persone più felici di questo ritorno e dal vivo diede l’anima. Ma, quando arrivò il momento di entrare in sala prove per lavorare ai nuovi pezzi, la magia tra noi e lui svanì, era quasi diventato un ostacolo alla lavorazione del nuovo disco.

“Freedom” è il vostro ultimo lavoro uscito pochi giorni fa. Puoi spiegarmi alcuni dettagli sulla creazione di questo disco, come è stato lavorare con il produttore Shellback, collaboratore di Taylor Swift e Maroon 5, e come mai avete scelto di incorporare nuove influenze come il funky in alcuni brani. Possiamo definire “Freedom” come “The New Beat” del terzo millennio?
David: “Freedom” è stato per noi un lavoro con il quale abbiamo voluto creare una sorta di nuovo genere, non il “New Beat” del terzo millennio ma una nuova forma musicale dei Refused. Il lavoro in studio è stato un susseguirsi di domande come “Cosa facciamo?”, “Ce la possiamo fare?”, “E’ questo il suono che vogliamo?”. Non abbiamo avuto le idee chiare fin da subito, non ci siamo presentati davanti al famoso foglio bianco con un’idea di massima ben chiara, abbiamo avuto l’attitudine di quattro appassionati di musica che si ritrovano dopo anni a scrivere dei nuovi pezzi. Sin dall’inizio ce ne siamo fregati di cosa avrebbe pensato la gente. Avrebbero apprezzato i nostri nuovi brani? Saremmo stati felici. Sarebbero rimasti delusi? La nostra opinione sarebbe rimasta la stessa.
Dennis: Il lavoro con Shellback è stato una semplice parentesi, in realtà il disco è stato prodotto da Nick Launay, che abbiamo amato nei lavori con Nick Cave, dai Bad Seeds ai più recenti Grinderman. Shellback ha lavorato solamente su due pezzi, è un nostro amico e lo conosciamo prima di tutto perché è da sempre un fan del nostro gruppo: è un bravo batterista, ha suonato in passato con delle band metal e gli piace sempre raccontare il fatto che ha imparato a suonare lo strumento emulando le parti di David. Quando ha ricevuto i nostri pezzi ci ha dato la sua prima opinione, dicendo che i suoni andavano bene, soprattutto quelli delle chitarre. Pochi giorni dopo, eravamo negli Stati Uniti per registrare di “Freedom”, ci inviò una demo di quella che sarebbe poi diventata il singolo “Elektra”. Rispetto alla versione originaria, che durava più o meno sette minuti, il lavoro fatto da Shellback è stato perfetto, riducendo la durata a più della metà e dando al brano un arrangiamento che, al primo ascolto, ci ha fatto pensare che il risultato finale era di gran lunga migliore rispetto a quanto avevamo fatto. Pur avendo registrato il resto del disco con Nick, siamo tornati in Svezia all’inizio dell’anno per riregistrare “Elektra” con Shellback e anche per rimettere mano a “366”, canzone da lui riarrangiata con risultati migliori. E’ stato bello lavorare negli MXM, studi che in passato hanno ospitato nomi come Britney Spears, Christina Aguilera e Usher. E’ stato una figata urlare davanti a quei microfoni!

Vi siete sciolti nel 1998, dopo un fallimentare tour promozionale di “The Shape Of Punk To Come” che vi ha visti suonare negli scantinati e, nella vostra ultima esibizione, vi siete trovati davanti la polizia a chiudere tutto dopo pochi pezzi. Nel 2012, siete tornati come grandi star suonando nei palchi dei maggiori festival internazionali. Come è stato vivere questo successo postumo a distanza di quasi quindici anni dall’ultimo lavoro?
Dennis: E’ stata una cosa strana, anche perché già nel 1998 come band eravamo consapevoli che “The Shape Of Punk To Come” sarebbe stato ricordato come un gran disco. Il brutto è che i fan non colsero subito il suo valore.. “The Shape Of Punk To Come” è stato un album che è cresciuto con il tempo, una sorta di cavallo in corsa. Nel 1998 vendette pochissimo e questo insuccesso ci spinse a scioglierci e creare nuovi progetti. Pochi anni dopo, i nostri brani iniziarono a trovare spazio nelle playlist di emittenti radiofoniche e televisive, capitava spesso di vedere il video di “New Noise” su MTV, al punto che negli anni è riuscita a diventare una hit di un certo spessore. Se non ci fosse stata una spinta mediatica negli anni tra lo scioglimento e la reunion del 2012, molto probabilmente i concerti della nostra reunion si sarebbero tenuti in location ben più intime, come la pista di ghiaccio appena qui dietro, e di fronte a ben poche persone!
David: Quando “New Noise” diventò una hit negli anni successivi alla pubblicazione di “The Shape Of Punk To Come”, soprattutto in America, ci siamo stupiti non poco. In quegli anni entrai a far parte di una nuova band e ai nostri concerti partecipava al massimo una ventina di paganti. Non ho mai capito il successo crescente dei nostri brani negli anni e, se devo essere sincero, trovo ancora molto strano aver suonato tre anni fa davanti a decine di migliaia di persone gli stessi brani che, a fine anni Novanta, venivano seguiti da platee di pochissimi fan. Nei primi anni del Terzo Millennio abbiamo vissuto nella situazione paradossale di una band che aveva tra le mani una potenziale hit ma che, per svariate ragioni, non poteva godere di questo grande seguito mediatico. Con la reunion abbiamo dovuto cambiare in maniera marginale la nostra mentalità: il nostro obiettivo era solo quello di suonare i brani del passato su palchi più grandi e davanti a molte più persone. Eravamo la stessa band, suonavamo nella stessa maniera e il nostro pensiero era lo stesso di quegli anni. Di fatto è stato come addormentarsi nel 1998 ed essersi svegliati diversi anni dopo, sul palco del Coachella.
Dennis: Coachella è stato il nostro primo grande show e l’aria che si respirava, tra di noi e i nostri tecnici del palco, era del tipo “Ma dove cazzo ci troviamo?”. In realtà prima ci furono tre concerti di riscaldamento in dei piccoli club in Svezia, tanto per riprendere confidenza con il palco dopo tanti anni. E’ una cosa strana, certo, ma possiamo dire di essere stati una di quelle poche band capaci di fare questo, lasciare la scena da perfetti sconosciuti e tornare dopo anni nei piani alti dei festival internazionali.

Ho letto la setlist che avete suonato nelle altre date e ho visto che sono incentrate sui pezzi degli ultimi due album, come mai avete deciso di mettere da parte i brani dei primi due album (esclusa “Rather Be Dead”) e dei vari EP che avete pubblicato negli anni Novanta?
David: Molto semplice: abbiamo scelto di suonare quei brani perché sono la visione più sincera dei Refused che abbiamo oggi. Certo, c’è una rosa di quattro-cinque brani che vorremmo suonare ma che crediamo siano poco adatti a contesti così ampi come quelli dei festival estivi, di sicuro saranno delle carte che terremo da parte per il tour che faremo nei club a fine anno. L’approccio è lo stesso del 2012, quando scegliemmo di suonare solo pochi brani al di fuori di “The Shape Of Punk To Come”. Certo, il clima è diverso: ora abbiamo un nuovo disco, il tour sarà molto più esteso (cosa che ci porterà in location al di fuori degli open air estivi) e la presenza di Mattias Bärjed nella formazione live, fan del nostro vecchio materiale, ci potrebbe spingere ad inserire altre canzoni in scaletta in futuro.
Dennis: Però non lo faremo questa sera! A parte gli scherzi, il problema è che quando siamo tornati tre anni fa, soprattutto negli Stati Uniti, quelle volte che decidemmo di inserire in scaletta nostri brani noti, ma non come una “New Noise” per fare un esempio, molto spesso il pubblico accolse questi pezzi in maniera fredda. Ricordo una sera in particolare: decidemmo di inserire nel nostro primo show a San Francisco “Everlasting” e, escludendo una manciata di fan di vecchia data nelle primissime file, il resto del pubblico era praticamente indifferente, chiedendosi che brano stavamo suonando. So che è una scelta difficile, ma una band come la nostra deve mantenere alto il ritmo, l’energia e deve avere davanti, soprattutto, un pubblico molto caldo e partecipe.
David: Sono d’accordo: purtroppo, inserire dei brani meno noti può portare il pubblico ad annoiarsi e, nella peggiore delle ipotesi, rompere il ritmo in maniera irreparabile. Per ora la scelta è quella di suonare una scaletta abbastanza standard, come quella di stasera, facendo in modo che il pubblico possa apprezzare anche i più recenti brani tratti da “Freedom”; poi, nel club tour del prossimo autunno, le cose cambieranno, di sicuro.
Dennis: “366”, secondo me, può diventare un classico del nostro gruppo, e da queste prime date le possibilità per quanto mi riguarda sono molto alte. Mi piace pensare a questa canzone come ad una “Ace Of Spades” suonata dai Motorhead nel 1980, anno di uscita del disco: molti fan di allora avrebbero preferito dare spazio a qualche brano minore tratto da “Bomber” o da “Overkill”, ma con gli anni questo brano è diventato un classico presente in ogni concerto di Lemmy e soci.

David, non vi siete rotti le scatole a suonare “New Noise” ogni sera?
David: No, assolutamente, perché è una delle nostre canzoni più strane e più impegnative, musicalmente parlando. Posso dirti che è un brano che si discosta dal resto della nostra produzione, con molte strutture musicali strane. Non è una cosa semplice e non è nemmeno un brano da prendere sottogamba: bisogna stare molto concentrati fino alla fine.

Dennis, ti rivedremo in futuro nel progetto Church Of Noise? E ci sarà la possibilità di un nuovo album degli INVSN?
Dennis: Rispondo prima alla domanda sugli INVSN: ci stiamo già lavorando e, se non vi sono intoppi di alcun tipo, inizieremo le registrazioni alla fine dell’estate. Lo scopo è quello di pubblicare il secondo disco nel 2016, e ce la dovremmo fare. Sul tornare a collaborare con Bloody Beetroots ad oggi non posso darti una risposta sicura, se non che Bob ha già pronto un remix di “Elektra”. Vedremo come andrà in futuro, anche perché è bellissimo lavorare con lui in studio, sia dal punto di vista personale che professionale, ma la sfortuna è che nel 2015 siamo entrambi molto impegnati con i nostri progetti.

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