Perché bisogna vedere il documentario su Amy Winehouse

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Ricordo come fosse ieri il giorno della morte di Amy Winehouse: 23 luglio 2011, ero a Villa Manin di Codroipo per l’annuale festival de La Tempesta (poi funestato da un nubifragio) e avevano finito da pochissimo il loro set i Cosmetic. Poco dopo le 17 inizia a rimbalzare la voce del decesso di Amy Winehouse, poi confermata dai vari media nazionali ed internazionali. Il mondo si fermò. “E’ morta la Winehouse? Non ci credo, avevo preso il biglietto per il concerto di Lucca, ci tenevo un casino ad andare a vederla“, la frase che, di riffa o di raffa, veniva detta da più di qualcuno nei minuti successivi alla tragica notizia.

Perché iniziare questo articolo con un riferimento che non c’entra nulla con “Amy: The Girl Behind That Name“, nelle sale italiane in questi giorni? Per un semplice motivo: è la limpida conferma del successo trasversale che la minuta artista londinese era riuscita ad ottenere in pochissimo tempo, e con soli due dischi, capaci di radunare attorno alla sua musica appassionati di ogni genere musicale. Una carriera durata meno di dieci anni, una combinazione di talento cristallino e azzeccate mosse di marketing capace di spalancare le porte di generi tutto fuorché popolari come il jazz e il soul alle masse, e di fungere da apripista ad altre colleghe, una tra tutte Adele.

“Amy: The Girl Behind That Name” è diretto da Asif Kapadia, regista britannico di origine indiana al secondo documentario dopo quello su Ayrton Senna del 2010. Tecnicamente il regista decide di mantenere lo stesso approccio stilistico, montando sapientemente video privati concessi da familiari ed amici, materiale di repertorio arrivato da magazine e trasmissioni televisive, performance in studio, interviste audio alle persone a lei più vicine con i brani del repertorio della Winehouse come collante tra gli ideali capitoli di questa storia.

La vicenda svela numerosi retroscena sulla vita privata non noti al grande pubblico, come ad esempio l’amicizia che l’ha legata negli anni con Nick Shymanksy, suo primo manager, lo showman Russell Brand (tra i primi che provarono a convincerla ad andare in una clinica di riabilitazione) e con la collega Juliette Ashby, sua migliore amica fino all’ultimo giorno. Ciò che emerge è che ad ucciderla, in quell’estate di quattro anni fa, è stato l’ambiente che l’ha circondata fin dal primo segnale di successo internazionale, combinato alla vulnerabilità di una donna che non è mai riuscita a superare la separazione dei genitori e il decesso dell’amata nonna.

Anche se molti penseranno che la figura cruciale della sua vicenda sia quella di Blake Fielder-Civil, ex marito la cui più grande colpa è quella di aver introdotto la Winehouse nel mondo delle droghe pesanti, in realtà il ruolo più importante nella spirale autodistruttiva di Amy è quello del padre Mitch Winehouse. Oltre a essere la causa della separazione con la moglie (sarà lui a tradirla e a lasciarla dopo anni di relazione extraconiugale), lui stesso non ha colto alcuni segnali di disturbi alimentari come la bulimia emersi già in giovane età (vennero scambiati per un semplice scherzo), ed è stato tra coloro che più hanno approfittato del successo mondiale della figlia. Una persona il cui giudizio dopo la visione del documentario non può che essere negativo e che, ad esempio, decise di portare una troupe televisiva a St Lucia, isola nella quale Amy Winehouse si ritirò per un periodo di riposo, per registrare un documentario a sua insaputa. Inoltre fu anche lui a spingere la cantante ad andare in tour nel 2011, proposta mai avallata da lei e che può essere considerata come la pietra tombale sulla sua vita: dopo un periodo di sobrietà, infatti, proprio nei giorni immediatamente precedenti all’inizio di quel tour Amy tornò a bere, aggravando quindi i problemi cardiaci dovuti al consumo di droghe e ai già citati disturbi alimentari avuti negli anni.

Dal lato musicale i momenti memorabili sono numerosi, e non vale la pena elencarli tutti per non rovinarvi la visione delle due ore di documentario. Mi limito a citarne tre: i video degli anni da adolescente, che occupano i primi venti minuti della pellicola dove la sua voce ancora acerba mostrava già un grandissimo potenziale, la sua venerazione per Tony Bennett e la collaborazione con l’artista statunitense negli Abbey Road Studios (e che, con il senno di poi, sarebbe potuta essere una svolta positiva nella sua precaria situazione psicologica) e trenta secondi di sola voce da pelle d’oca nei quali si vede la Winehouse in studio cantare una strofa di “Back To Black” con Mark Ronson in cabina di regia.

“Amy: The Girl Behind That Name” è distribuito dalla Nexo Digital e sarà nelle sale cinematografiche italiane fino a domani, giovedì 17 settembre.

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