Se c’è una persona che ha dato tantissimo e raccolto poco nella storia recente del rock americano, questo è Bob Mould. Prima con gli Hüsker Dü, poi con i Sugar e con una carriera solista che dura ormai da più di venticinque anni, il cantautore ha dato il la a molte band diventate ben più famose di lui, una tra tutte i Foo Fighters. A due anni dal precedente “Beauty And Ruin“, il cantautore newyorkese pubblica “Patch The Sky”, il suo dodicesimo studio album.
Ed è il solito grande rock alla Bob Mould: pochi fronzoli tipici di un power trio che più classico non si più, tanta anima e un gusto nelle melodie alla chitarra per il quale in molti sarebbero disposti a vendere la famiglia. Un lavoro che non rinnega il suo passato, non lo ha (quasi, basti pensare a “Modulate”) mai fatto in più di trent’anni di carriera, ma che continua a portare alta la bandiera di un rock maturo e ricercato, capace di essere potente ma anche accattivante, catchy direbbero negli Stati Uniti. Lo spettro della hardcore punk band che lo lanciò negli anni Ottanta lo si respira più volte (“You Say You”, “Hands Are Tied” e “Losing Time”), ma la cosa più importante che emerge nei dodici pezzi di “Patch The Sky” è la capacità di arrivare al cuore dell’ascoltatore con degli inni che entrano in testa al primo ascolto (“The End Of Things”) e con un perfetto mix tra impatto sonoro (“Daddy’s Favorite”) e power ballad di grande qualità (“Losing Sleep” e la conclusiva “Monument”).
Uno come Bob Mould lo si può solo amare. “Patch The Sky” è un lavoro ricco di brani memorabili e costruito perfettamente, anche se un fan può respirare più volte quell’aria di già sentito, alcune strutture comuni già presenti nei suoi brani del passato al punto che un senso di deja-vu lo si percepisce anche in un paio di canzoni di “Patch The Sky” (non nascondiamoci dietro al famoso dito: l’attacco di “Hands Are Tied” e “Losing Time” è molto simile). Una consolidata scelta stilistica che può essere vista come un difetto da non trascurare, capace di far storcere il naso ad alcuni.