A Bruce Springsteen invidio tre cose, tra le tante. La prima è il carisma: di artisti capaci di tenere in pugno decine di migliaia di persone ogni sera non ce ne sono tanti in giro. La seconda è la sua discografia: pur presentando dei capitoli sul quale si può discutere, il resto viaggia dal più che buono al capolavoro totale globale dell’umanità. Il terzo è il culo: no, non sto parlando della fortuna, che un pizzico di aiuto gli ha dato nella primissima fase della carriera. Ma del fondoschiena immortalato nella copertina di “Born In The USA” e piazzato in bella mostra sul big screen durante “Ramrod”, l’esempio più eclatante della clamorosa forma fisica dell’eterno ragazzo del New Jersey che, vicino alla soglia dei settant’anni, riesce ancora a tenere botta per quasi quattro ore di concerto (3.53h, secondo i cronometristi ufficiali).
Il concerto del Circo Massimo di Roma, terza e ultima data italiana del tour dedicato a “The River”, è stato un successone dal punto di vista logistico, al punto che lo stesso Springsteen ha ringraziato pubblicamente il promoter di Barley Arts Claudio Trotta, che cura i concerti italiani dell’artista da più di trent’anni: controlli scrupolosi ma veloci all’ingresso, cosa che ha sfoltito molto velocemente le lunghe code che si sono accumulate prima dell’apertura cancelli, un’organizzazione dell’area perfetta con tanto di kindergarten nella parte sul retro, food and beverage a prezzi popolari (l’acqua ad un euro non la si vedeva da molto tempo, ad happening di queste dimensioni) e, tenendo conto dei grossi limiti strutturali dell’imponente location, uno sfollamento dell’area post-concerto molto veloce.
Ogni esibizione del Boss è un evento a sé, e non solo per la setlist che varia di data in data: ogni serata di Springsteen ha infatti il suo momento da ricordare, il pezzo che non veniva suonato da non si sa quanto tempo, la lacrima scesa nel momento topico della serata (per alcuni, un momento durato quasi 4 ore). Come non ricordare l’ingresso trionfale sull’epica “New York City Serenade”, brano della durata superiore ai 13 minuti che lo ha visto condividere il palco con l’Orchestra Sinfonietta di Roma, o l’esplosione rock della successiva “Badlands”, che ha mostrato una E Street Band in grandissimo spolvero con uno Steve Van Zandt nel triplo ruolo di chitarrista, backing vocalist e spalla comica del Boss.. Un concerto nel quale “The River” l’ha fatta da padrone, con più di dieci estratti e con l’illusione, poi svanita con la cover “Boom Boom”, di ascoltarlo dall’inizio alla fine come avvenuto a Parigi poche sere fa (e in tutto il tour in Nordamerica).
Springsteen e i suoi concerti sono anche un tornado di emozioni: si passa infatti dall’aria di festa delle cover di “Summertime Blues” e della conclusiva “Shout”, allungata all’inverosimile, della sua versione di “Because The Night”, brano da lui scritto e reso famoso da Patti Smith, e al fatto che l’artista inizi a scherzare sulla sua età, rappresentata dal suo “sono troppo vecchio per queste stronzate” palesato in maniera ironica nella parte finale dello show. Ampio spazio anche ai molti momenti più intimi, come il debutto in questo tour di “The Ghost Of Tom Joad” (proposta in versione acustica con armonica), “Independence Day” con i cellulari che illuminano a giorno il Circo Massimo, la chicca “Tougher Than the Rest” in duetto con la moglie Patti Scialfa e una “Land of Hope and Dreams” dedicata alle vittime del recente attentato di Nizza. Di sicuro le emozioni le hanno vissute le persone salite sul palco durante il classico “Dancing In The Dark”, nella quale stavolta non è stato dato solamente spazio ad una fortunata ballerina, ma anche ad una giovane chitarrista, a tre persone che hanno voluto ballare con Steve Van Zandt, Garry Tallent e Jake Clemons (che, con il passare del tempo, si dimostra sempre più degno erede dello zio) e l’eroe assoluto, un tredicenne studente di percussioni che ha realizzato il sogno di suonare la batteria con Max Weinberg che gli regalerà alla fine dell’esibizione anche un paio delle sue magiche bacchette.
L’unico difetto della serata, che comunque è ampiamente perdonabile visto l’altissimo livello delle quasi quattro ore di concerto (sì, vale sempre la pena ribadire la durata di questi show, ciao Rihanna), è stata una versione deludente di “Born In The USA”, uno dei rari momenti della serata dove il Boss ha faticato non poco. Inoltre, il fatto che la successiva “Born To Run” sia stata invece cantata in maniera egregia fa pensare, ai maligni, che questo pezzo sia stato suonato controvoglia. Non me ne voglia la Bruce Springsteen Army, ma questa manciata di minuti resta l’unica piccola ombra di un concerto praticamente perfetto. Si perdona tutto al Boss, di fronte a concerti la cui intensità non ha rivali al mondo.