Non avevo dubbi sin dal momento della loro conferma come headliner del venerdì di Home Festival: i Prodigy avrebbero impacchettato e preso a calci in culo il pubblico per un’oretta e mezza. Il francesismo detto poco fa per affermare una cosa tanto semplice: di band live come i Prodigy non ce ne sono. Anzi, ce ne sarebbero due, i Nine Inch Nails e i Dillinger Escape Plan, ma parliamo di realtà con budget ben più ampi (i primi) e di tutt’altro genere (i secondi).
I Prodigy sono il gruppo perfetto: in venticinque anni di militanza (non ho usato il termine “carriera” volutamente) hanno portato nel mainstream la cultura dei rave di fine anni Ottanta e inizio anni Novanta, quel mondo fatto di musica ad altissimo volume, feste sopra le righe in spazi abbandonati il cui termine veniva scandito più dalle cariche di polizia che dalla chiusura da parte degli organizzatori. Una parentesi importante nella cultura musicale britannica che i nostri hanno contaminato con il rock e il punk, portando anche i più intransigenti dei metallari ad adorare questa “band da cassa dritta”.
Il concerto portato a Home Festival è stato una cosa clamorosa. Impossibile rimanere indifferenti dalla carica esplosiva dei Prodigy, e non solo per i suoni perfetti ad altissimo volume che hanno invaso l’intera area della rassegna. No, quando hai davanti un Liam Howlett che con dei synth vecchia scuola riesce a fare cose che i DJ più cool EDM si sognano e una coppia di frontman come Maxim e Keith Flint nel ruolo di veri e propri sciamani dell’electro music capisci il vero e proprio ruolo di pietra miliare di un certo modo di fare musica. Non a caso “The Fat Of The Land” (fun fact: prima dell’avvento di Adele è stato tra i dischi più venduti della XL Recordings) è annoverato come influenza e “disco fondamentale” per una folla eterogenea come non capita con altri artisti.
I Prodigy non vivono però di ricordi. Anzi, non ci sono in giro gruppi che credono così ciecamente nel materiale più recente di loro. La scaletta di Treviso è infatti dominata dai brani degli ultimi due studio album, “Invaders Must Die” e “The Day Is My Enemy”, con gli altri lavori ridotti a semplici citazioni o, nel caso di “Always Outnumbered, Never Outgunned”, manco citati. E sentendoli dal vivo capisci quanto sti quasi cinquantenni abbiano ragione: “Nasty” è già un classico, “Rok Weiler” è roba che metallari più navigati si sognerebbero la notte e “Omen” e “Invaders Must Die”, dal precedente lavoro, possono essere tranquillamente messe a fianco dei classici degli anni Novanta.
Tutto questo per dire una cosa: chi dava per finiti i Prodigy, perché troppo radicati ad un’era che non c’è più, non capisce praticamente nulla. Gli inglesi sono ancora oggi uno dei gruppi migliori che si possa vedere dal vivo, un act che non rinnega le sue radici e che, anzi, le ha prese e contaminate. Una scelta a suo tempo coraggiosa ma che ha permesso alla loro proposta, estrema e tutt’altro che mainstream, di raggiungere le masse e portare in quel di Treviso più di 20mila persone.