Finley: dopo dieci anni un nuovo inizio con “La Fine Del Mondo”

Dopo un 2016 caratterizzato dal tour del decennale del disco di debutto “Tutto E’ Possibile”, i Finley tornano con un brano inedito. Intitolato “La Fine Del Mondo”, il pezzo è l’apripista di quello che può essere considerato come l’inizio di un nuovo percorso che porterà ad un album diverso dal passato, più vicino all’elettronica.

Abbiamo incontrato la band a Padova, poche ore prima del loro concerto al Parco Della Musica, per una lunga (davvero) chiacchierata nella quale si è percorsa la storia di uno dei gruppi più amati e, contemporaneamente, discussi degli ultimi anni.

Questa sera chiudete il vostro tour a Padova in una serata Back To TRL, con Dari e Walter Fontana (ex Lost). Prima di tutto, come vivete questa che può essere vista come una sorta di rimpatriata tra band più o meno contemporanee?
In realtà questa è una data come un’altra del tour. L’unica differenza rispetto alle altre date è che è il primo concerto all’aperto di quest’anno. Questi concerti sono serviti a preparare quello che sarà il nostro prossimo tour estivo, un tour che abbiamo voluto chiamare “La fine del mondo tour” come il nostro ultimo singolo. Siamo veramente felici dei risultati ottenuti, anche in questa serata nella quale verrà molta gente: siamo una band che negli ultimi anni si è dedicata allo studio, creando un percorso radiofonico parallelo a quello della band, abbiamo avuto anche esperienze televisive… in questi anni abbiamo voluto espandere la nostra comunicazione anche su altre cose al di fuori della musica. Ci siamo divertiti, abbiamo sperimentato tantissimo su altre tipologie di entertainment. La dimensione live negli ultimi anni è stata toccata relavitamente; tornare sui palchi con il tour del decennale di “Tutto è possibile” ci ha dato la forza e una maggiore convinzione di intraprendere un nuovo percorso dal vivo e in studio, con un nuovo brano che ha ottenuto una risposta eccezionale.

Cosa ricordate di quei tre anni, dal 2006 al 2008, nei quali avete avuto un’esposizione enorme?
Volava tutto a velocità supersonica, tanti eventi in così poco tempo che di alcune cose abbiamo dei ricordi sfocati. Succedevano tante di quelle cose in ogni singolo giorno e, tolti quei punti saldi che ricordi molto bene, spesso ci capita di raccontarci degli aneddoti che ci eravamo dimenticati. La cosa bella è che avevi a che fare ogni giorno con qualcosa di diverso e nuovo. Tanti palchi che hai sempre sognato e poi, da un giorno all’altro, ti trovi ad aprire il concerto di un’artista internazionale come Pink, a suonare all’Heineken Jammin Festival con i Depeche Mode. La noia è stata, in quel momento, la cosa più lontana che potevamo vivere. Ti trovavi a pensare ogni tanto “No ragazzi! Basta, troppo, tutto!”. Però ce la siamo veramente goduta, anche se il ritmo era insostenibile ogni secondo è stato prezioso.

Un percorso frenetico ma che, allungando fino al 2012, vi ha visto particolarmente attivi anche sul fronte discografico: cinque dischi in sei anni parlano da soli. Quali sono le motivazioni che vi spinsero ad avere una così elevata prolificità?
Sappiamo fare poche altre cose nella vita; non sappiamo quale sia il risultato finale, ma ci piace un casino scrivere canzoni e portare su carta la nostra vita. Ci sono artisti che preferiscono scrivere al computer, ma noi apprezziamo ancora la carta, visto che quando cancelli dal computer sparisce per sempre, mentre la carta rimane. Ci capita anche di lavorare su dei fogli Word, nei quali raccogliamo idee per dei brani che poi diventano un papiro di dodici pagine, con la bella copia e tutto il resto sotto! Tornando alla domanda, tra i 20 e i 25 hai bisogno di raccontare quello che succede e, quando i tuoi fan acquistano la tua musica e la apprezzano, è un po’ come mettere della legna su un fuoco che arde, che abbiamo acceso noi ma che sono i fan ad alimentare.

Quella frase fatta della sinergia tra fan e band ma che, di fatto, è un’autentica realtà…
Esatto! Quando hai bisogno di far sentire roba e di metterti in gioco e, dall’altra parte, trovi qualcuno che apprezza la tua musica e ti stimola a continuare, sei spinto a dare il massimo e continuare a scrivere. Se invece, detto fuori dai denti, pubblichi qualcosa che il tuo pubblico non caga perdi quella motivazione di rendere pubbliche le tue canzoni. La risposta incide inevitabilmente sul giudizio della cosa: puoi pubblicare la cosa che ritieni la più figa del mondo ma se poi, da parte dei fan, il feedback è zero è normale farsi qualche domanda.

La prima parte della vostra carriera vi ha visti lavorare con Claudio Cecchetto. Voi che avete lavorato con lui per tre album, è il Re Mida che in molti dipingono?
Più che un Re Mida è un vero e proprio tornado che travolge tutti coloro che gli stanno intorno. Ha entusiasmo, esperienza: abbiamo assorbito tutta la sua esperienza nel mondo della musica e nell’essere un autentico creatore di fenomeni, perché è quello che ha fatto per tutta la sua carriera artistica, creando artisti capaci di entrare nel cuore dei ragazzi. Radio Deejay, Jovanotti, gli 883: progetti che sono usciti e che hanno rotto gli schemi. Un po’ quello che ha fatto con noi, portando un modello di band più americano nel mercato nazionale, facendo una cosa che non gli era mai riuscita prima. Ma non è un Re Mida per un semplice motivo: per un progetto di grandissimo successo, ne sbagliava molte. Un difetto che lui stesso ammetteva. Il suo grandissimo pregio era un altro: la capacità di percepire un talento, coltivarlo ed amplificarlo. Tutto il resto stava però in mano all’artista, che doveva sfruttare al meglio l’occasione, la benedizione che Cecchetto gli ha dato. Riceveva una marea di promo ogni giorno, da gente che era convinta di esplodere con il suo aiuto. Il suo ragionamento però era molto semplice: lui ti dava la macchina, te la metteva anche in moto, ma se non riuscivi a guidarla alla prima occasione saltavi. La sua visione musicale si poteva riassumere con questo aneddoto: la band da seguire e da avere come obiettivo non erano nomi altisonanti, non ti citava i Beatles o i Rolling Stones, ma i The Monkees, una band statunitense contemporanea ai Beatles ma che, negli anni, andò oltre alla musica lavorando anche in televisione e per il cinema. La nostra risposta fu secca: volevamo solo suonare. Poi col tempo, e dopo aver chiuso il contratto con lui, abbiamo iniziato a fare altro, dalla TV alla radio… alla fine aveva ragione lui. Con lui eravamo in disaccordo su diverse cose ma, a posteriori, aveva ragione sul 90% delle cose.

L’esperienza tra radio e TV vi ha arricchito…
Questa cosa è nata in maniera del tutto casuale. Eravamo reduci dalla pubblicazione di due album e da una collaborazione con Lego: volevamo fare altro perché non avevamo voglia di tornare subito in studio. La nostra fortuna è stata quella di essere stati apprezzati in questa veste sin da subito, e il primo a credere in noi fu il direttore artistico di Radio Kiss Kiss, che ci ha chiesto di buttar giù un paio di idee dopo averci visto in radio per alcune interviste. La radio è un media molto difficile da affrontare; un conto è andarci come ospite, puoi avere la giornata fortunata, azzeccarle tutte e ne esci vincitore. Ma se ti si prospetta davanti una trasmissione, per la quale è prevista anche una certa continuità temporale, devi avere qualcosa da dire, perché altrimenti casca il castello. La radio è stata una cosa arrivata dall’esterno, in un primo tempo ci furono delle perplessità, ma poi ci siamo buttati dentro e, sinceramente, ci stiamo divertendo. Ora però il nostro approccio non è più quello di quattro sbarbatelli davanti al microfono, ma quello di veri e propri professionisti. Certo, lo diciamo a bassa voce!

Siete attivi anche con la beneficienza con il CESVI, prima con le compilation “Punk goes acoustic” e poi con il singolo “Il mondo”. Come siete entrati in contatto con questa associazione?
Per puro caso. I ragazzi di CESVI li avevamo conosciuti tempo fa, ma ci beccammo successivamente e ci siamo confrontati su delle idee riguardanti qualcosa da fare insieme. Loro erano appena partiti con il progetto “Food right now” e noi avevamo in testa da diverso tempo questa cover de “Il mondo”, avevamo anche un provino già pronto. Il progetto fu un successo perché andò a toccare le corde giuste, musicalmente ma soprattutto con il messaggio che si voleva dare. La cosa figa è che si decise di mandare il pezzo a diverse persone dello spettacolo, come Francesco Gabbani ed Ermal Meta, che hanno avuto un importante ruolo virale. Il ruolo di questo progetto non fu il vendere le copie, ma diffondere il messaggio a più persone possibili e, grazie all’aiuto di tutti, ce l’abbiamo fatta.

Il 2017 è l’anno del vostro ritorno: un deal con Sony e un ritorno con Barley Arts. Cosa dobbiamo aspettarci e, soprattutto, quale sarà il ruolo di Gruppo Randa in questo nuovo capitolo della vostra carriera?
La partnership con Sony in questa prima fase riguarderà la sola distribuzione, quindi avremo pieno titolo nel nostro percorso artistico. La musica sarà nostra, l’integrità artistica non verrà toccata. Chi pensa che il nuovo singolo “La fine del mondo” sia frutto di questo nuovo accordo si sbaglia, visto che è il percorso che oggi vogliamo dare alla nostra musica. Il brano è una sorta di partenza morbida di quello che sarà il nostro album di ritorno, molto più elettronico. Abbiamo voluto fare qualcosa di diverso, non di necessariamente peggiore o migliore, cancellando qualsiasi canone con il quale ci eravamo proposti in passato. Abbiamo messo in discussione qualsiasi cosa, con un minimo di pianificazione e grande istintività abbiamo seguito un percorso che ci ha portato a fare un disco migliore dei Finley.

Voi ce l’avete fatta a vent’anni in uno scenario diverso da quello di oggi, nel quale l’unico social media era MySpace…
Quante fighe c’erano su MySpace! E su MySpace eravamo fortissimi. Il punto a favore di questo social è che era improntato sulla musica: potevi scegliere la playlist dei tuoi brani preferiti, mettere nella tua Top 8 le band di riferimento. Fu un riferimento per il movimento pop punk ed emo internazionale, ma esplosero anche artisti come Arctic Monkeys e Mika!

Da trentenni, cosa suggerite a chi vuole fare musica nel 2017?
Quello che vogliono perché ormai non ci sono più regole. Si è toccato un livello di difficoltà discografico al punto che, oggi, l’originalità e il coraggio può pagare e dare più soddisfazioni di seguire dei canoni ben prefissati. Non è il periodo ideale per produrre e comporre musica, ma sicuramente la cosa bella è c’è una voglia di musica dal vivo e di band che cantano in italiano come mai in passato. Cantautorato, indie, rock: c’è una ripresa dell’idea di band e di chi scrive canzoni, c’è voglia di storie e di emozionarsi con qualcosa di più autentico. Questa cosa può solo migliorare, in passato sono stati toccati livelli di artificiosità assurdi. Il consiglio è solo uno: fate quello che volete. I talent possono portarti a seguire un percorso artistico che può portarti a lavorare nei più svariati settori della musica. La via che abbiamo scelto noi te la fai da solo e te la scrivi da solo: sei tu a costruire la tua storia. Nei talent si è di fronte ad una sorta di ufficio di collocamento dove c’è molto posto, è per quello che molti ci provano, vedono molte possibilità che se scegli di costruirti la strada da solo magari non ottieni più facilmente. Con le band può succedere un’altra cosa: che un gruppo funga da apripista, grazie al tempismo, di un filone, poi succede che ti trovi davanti a cloni di questa band. Un po’ come sta succedendo oggi con l’indie e un po’ quello che successe con noi: se non fosse uscito American Idiot nel 2004 molto probabilmente non ci sarebbe stata quella sorta di preparazione del terreno che poi avrebbe portato all’esplosione dei Finley. Un’altra cosa è che i ragazzi di oggi mancano di umiltà: ogni cosa che ti propongono è per loro la più figa del mondo ma poi, quando dai un tuo giudizio il più obiettivo possibile, ci rimangono male. Una volta c’era un desiderio di mettersi alla prova, ora se ricevi un no ti deprimi e, può succedere, molli tutto dopo il primo ostacolo.

Notizia fresca: i Rolling Stones hanno fatto sold in pochi minuti e già si parla di secondary ticketing. Da appassionati di musica, e da membri del roster di un’agenzia che sta lottando contro questo fenomeno, cosa ne pensate?
L’unico settore che funziona nella musica è il live, qui arriva l’illegalità. Una volta ci furono i download illegali, in passato ci fu il virus del merchandise illegale da combattere. Quando una cosa funziona, purtroppo, deve sempre arrivare qualcuno o qualcosa che rompe le uova nel paniere. La musica è un corpo che presenta numerose patologie, e ora vanno ad intaccare l’unica parte che ancora non ne era stata intaccata. Si parla di una cosa orribile, che va a lucrare sulla benzina del motore della musica, quel fan che magari rinuncia alle vacanze estive. Perdi il fan, perdi la persona, al punto che l’artista stesso deve mettere la faccia in prima persona contro questo sistema. A volte l’artista, giustamente, è estraneo a certe dinamiche ma, a causa di questi comportamenti, si trova suo malgrado a dover mettere la faccia in vicende il cui ruolo è di competenza di altri, dicendo che “Non succederà più”, anche se di fatto è anche lui una vittima di questo sistema. La vicenda Coldplay è stata un ottimo volano per questa vicenda che comunque era già nota e della quale all’estero se ne parla da anni: un esempio sono i Mumford And Sons, che in passato hanno avanzato una richiesta al Parlamento britannico di affrontare l’argomento.