Intervista ai Descendents: “Cosa mi aspetto dalla data italiana? Del gran cibo!”

I Descendents sono impegnati in questi giorni nel loro tour nel Vecchio Continente. La band statunitense, tornata nei negozi lo scorso anno con l’album “Hypercaffium Spazzinate” (distribuzione Epitaph), chiuderà in Italia domenica 11 giugno una tournée che li ha visti esibirsi in città come Vienna, Amsterdam, Berlino e in festival di prestigio come il Primavera Sound di Barcellona. Abbiamo incontrato poche ore prima del secondo show del tour, che si è tenuto domenica 4 giugno al Kentish Town Forum di Londra, il chitarrista del gruppo Stephen Egerton, in una chiacchierata nella quale si è percorsa l’intera storia del gruppo, con alcune incursioni nella vita privata e nell’influenza che i Descendents hanno avuto in band che, negli anni, hanno ottenuto un successo molto più importante.

“Milo quit his job” potrebbe essere il titolo del vostro prossimo disco, vista la scelta che il cantante della vostra band ha fatto recentemente. Carriera professionale che, in un modo o nell’altro, ha influenzato la storia della vostra band che ha subito, negli anni, pause più o meno lunghe. Questa decisione potrebbe dare una svolta alla storia della vostra band?
Beh, di fatto la storia era già cambiata da circa sette anni, periodo nel quale abbiamo cominciato a suonare dal vivo più o meno regolarmente, ma molto limitatamente rispetto a quanto farebbero altri gruppi. D’altronde tutti noi abbiamo dei lavori, basta pensare a me e Bill Stevenson che facciamo i produttori. Certo, la scelta di Milo di lasciare il suo lavoro ha spalancato le porte ai nostri impegni futuri, avendo la libertà di poter fare potenzialmente più cose che in passato. Certo, tutti noi siamo felici di poter dedicare più tempo ai Descendents…

Di fatto i vostri impegni live ricordano molto quelli degli Shellac di Steve Albini: tour brevi, di massimo qualche settimana, ma ricchi di date, quasi una ogni giorno…
Ed è una cosa prettamente logistica, e dovendo viaggiare lontano rispetto a dove abitiamo è la gestione più naturale dei live che si possa fare. Una cosa simile l’abbiamo fatta in Australia all’inizio dell’anno, per un viaggio che come puoi immaginare è stato piuttosto lungo, soprattutto per Milo che vive nella East Coast, mentre gli altri membri della band vivono praticamente nella zona centro-occidentale degli Stati Uniti. Per tutti noi andare in Australia è stato un grande lavoro. Negli Stati Uniti, invece, preferiamo organizzare i nostri tour nei weekend, o almeno cerchiamo di fare il possibile per concentrare i nostri show in questo periodo della settimana, cosa che ci permette di conciliare i nostri impegni familiari e professionali.

Il 2010 è l’anno del vostro ritorno dopo una lunga pausa. Quest’anno è stato l’inizio del percorso che vi ha portato al vostro ultimo disco “Hypercaffium Spazzinate”?
In un certo senso sì, anche perché quando torni a suonare dal vivo e lo fai per un paio d’anni è un po’ la conseguenza logica di un percorso che hai intrapreso. Dopo aver fatto concerti per un po’ di tempo, non avevamo alcuna aspettativa che la cosa potesse continuare a lungo. Ma dopo il successo del tour, e il fatto che i concerti stavano andando alla grande, eravamo in un punto “tutto o niente”. Potevamo continuare a fare concerti, conciliandoli con gli impegni lavorativi di Milo, oppure portare avanti il progetto con nuovi live e quel disco che poi, qualche anno dopo, è arrivato. Eravamo comunque tutti interessati a continuare il progetto, ma il vederlo realizzato ha richiesto molto tempo: impegni professionali, famiglia, il fatto che viviamo in diversi posti ha ritardato il realizzarsi. Un’altra cosa che ha avuto il suo peso sull’uscita di “Hypercaffium Spazzinate” nel 2016 è il fatto che non siamo il tipo di band che si alza la mattina, pensa che deve fare un nuovo disco e inizia a lavorarci sopra. Noi abbiamo scritto pezzi perché sentivamo la necessità di farlo, semplice. Il tutto è un percorso naturale: quando arriviamo ad avere abbastanza brani, pubblichiamo il disco. Le prime idee dietro “Hypercaffium Spazzinate” sono arrivate dal passato: ognuno aveva degli abbozzi di canzoni pronti e li abbiamo usati come punto di partenza per lavorare ai nuovi pezzi, ognuno ha imparato i pezzi degli altri, li abbiamo perfezionati e infine registrati. Non scriviamo in fretta, il tutto è un processo organico: alcuni brani sono nuovi, molti risalgono a sei-sette anni fa, soprattutto dei pezzi scritti da Milo. Lui è uno che non ha mai smesso di scrivere canzoni e alcuni dei suoi pezzi, di fatto, erano già pronti per essere registrati.

“Hypercaffium Spazzinate” è una sorta di riassunto della vostra carriera?
Non abbiamo una via preferenziale nel scrivere canzoni, e penso che nessuno di noi scriva brani allo scopo di fare in modo che suonino in una certa maniera. Sia chiaro, è una mia visione personale, ma l’impressione è che noi scriviamo brani perché abbiamo qualcosa da dire, che sia musicale, una melodia o a livello di testo. Non vogliamo fare delle dichiarazioni musicali, non ci mettiamo a tavolino e decidiamo che il nostro disco debba suonare in questo modo o ricordare questa band, scriviamo quello che vogliamo scrivere. Questa è una cosa che facciamo da sempre, ancora prima che i Descendents diventassero una band. “Hypercaffium Spazzinate” suona sì come un riassunto della nostra carriera, ma non è stato progettato a priori perché diventasse così. Semplicemente, è successo.

Una cosa interessante dei Descendents è che ogni componente contribuisce attivamente alla stesura delle canzoni, chi con i testi e chi con la musica. Inoltre, la band non ha subito alcun cambio di lineup dopo l’ingresso di Karl Alvarez. Si è creata una sorta di alchimia che vi lega in maniera così forte?
Karl è entrato in un secondo momento ma è sempre stato parte della famiglia, essendo stato mio compagno di corso in high school. Siamo cresciuti insieme ed è stato uno dei primi a congratularsi con me dopo la pubblicazione del primo disco. Sì, è da tanto tempo che suoniamo insieme, io, Bill e Karl praticamente da trent’anni, ma il peso di Milo è sicuramente più rilevante del nostro nel successo della band, non pesa come un matematico 25%. Le persone si identificano con lui, il parlare è una lingua comune ed è quella che capiscono tutti. Inoltre a noi piace scrivere musica insieme. Ci sono molte cose sulle quali puoi avere un’idea parziale e il lavoro dei tuoi colleghi serve per fare in modo che l’idea diventi completa. Molte canzoni sono nate in questo modo.

Il tuo ruolo nel disco, oltre a quello di musicista, è stato anche quello di coproduttore con Bill Stevenson. Avete avuto degli input dalla vostra etichetta, la Epitaph Records, o vi hanno lasciato carta bianca?
Greg Graffin è un artista e arriva da quella scena punk degli esordi, nella quale le etichette non influenzavano i gruppi ma lavoravano con loro perché eccitati dalla musica che suonavano; il fatto di vendere dischi doveva comunque arrivare, perché si parla pur sempre di business ma in quel periodo capitava che l’entusiasmo prendeva il sopravvento. Greg non si è mai fatto coinvolgere nelle band dal punto di vista artistico, nel modo di fare un disco, ed è una cosa che posso affermarti con certezza perché con lui ho lavorato per molti album, come musicista e come produttore, e la stessa cosa è il pensiero di Bill; da questo punto di vista l’etichetta ci permette di lavorare con massima libertà. Lavorare come produttore richiede un diverso impegno, anche a livello di professionalità nell’ingegnerizzazione del suono, e nel percorso io e Bill di fatto ci siamo divisi le cose da fare. Questa volta abbiamo puntato a fare in modo di catturare le canzoni come volevamo venissero proposte, non ci siamo messi a manipolarle. Come produttori, abbiamo un meccanismo di voto molto democratico: se qualcuno non è d’accordo su qualcosa, la si abbandona, semplice. A parte questo, offriamo le nostre opinioni sul come catturare i pezzi nel modo più figo possibile, ma siamo aperti anche a raccogliere le idee degli altri: le opinioni di tutti contano, se ti permettono di arrivare ad un risultato finale che è un disco figo.

Quarant’anni on the road e siete sempre stati indipendenti…
In realtà un disco con una major, la Interscope Records, lo abbiamo fatto. Ma a conti fatti, non pensare che con le major si riescano ad ottenere questi grandi benefici. Tutto dipende dal tipo di band con il quale hai a che fare. Per noi, il periodo nel quale siamo emersi ha avuto un ruolo importante, ed è una cosa che ha accomunato moltissime band che sono uscite più o meno nel nostro stesso periodo, e con le quali abbiamo condiviso molti momenti di vita privata e professionale. Non c’era successo a qualsiasi livello, soprattutto quando Milo era al college, nessuno comprava dischi e poca gente veniva ai tuoi show. Non c’erano soldi, semplicemente.

I soldi sono arrivati una decina di anni dopo circa, Green Day, “Dookie”…
In un certo senso sì, queste band sono emerse in un altro periodo storico, in un altro scenario, ma non ritengo questa cosa un punto negativo, sia chiaro. Quando i Green Day sono esplosi il mercato musicale stava cambiando moltissimo, soprattutto per quella musica che per alcuni poteva diventare popolare. Pensa ai Nirvana, al loro successo: c’era già qualcosa che bolliva in pentola nella scena indipendente, ma la combinazione che ha portato i Nirvana a diventare ciò che sono diventati ha sorpreso tutti, persino le etichette che si sono trovate davanti un fenomeno che nemmeno loro si sarebbero aspettate. La reazione del pubblico al successo dei Nirvana ha fatto capire alle major in che direzione stavano andando i gusti dei giovani, inclusi quelli dei fan di Green Day e Offspring. Con loro abbiamo suonato diversi show nel corso degli anni, in posti piccoli, sono usciti dalla nostra stessa scena ma, se pensi bene, sono dieci anni più giovani di noi e sono emersi in uno scenario che ha permesso loro di arrivare ad un successo importante. Un ambiente che stava cambiando radicalmente, che ha reso il punk rock popolare e che ha permesso agli appassionati di conoscere altre band, come i Descendents o i Buzzcocks. Ironicamente, il successo per noi è arrivato molti anni dopo, e dalla porta di servizio. Trent’anni fa gli obiettivi erano radicalmente diversi: il tuo scopo era portare gente ai concerti e vendere qualche disco. Quando arrivavi al traguardo delle trentamila copie, di fatto, eri di fronte ad un risultato straordinario.

Hai mai riflettuto sul fatto che molte band, che hanno ottenuto negli anni più successo di voi, vi considerano i padrini del punk rock melodico?
In un certo senso sì. Negli anni abbiamo ricevuto attestati di stima da molte band, tra cui i Blink-182, che ci ritengono un’influenza fondamentale nelle loro opere. Di sicuro i Descendents hanno avuto il loro contributo nel successo di alcune band. Al nostro successo ha contribuito in parte anche il disegno stilizzato di Milo, una cosa che è nata per puro caso grazie ad un nostro amico, che fece un semplice bozzetto che poi è diventato un marchio riconoscibile per i nostri fan.

Tra una settimana suonerete in Italia, il primo dopo vent’anni. Quali sono le tue aspettative per questo show?
Mi aspetto prima di tutto, tenendo conto che da quelle parti non suoniamo da vent’anni, una cosa totalmente differente. Mi spiego: l’Italia è sempre diversa con noi. Quando veniamo in Europa, ed è una cosa che ultimamente facciamo spesso, ci capita di lavorare con concerti organizzati in maniera diversa. In Germania, Paesi Bassi e Belgio i concerti sono organizzati in maniera nettamente migliore rispetto allo show medio negli Stati Uniti mentre in altre realtà, come Francia e Italia, l’organizzazione è peggiore rispetto a quella degli show in Nordamerica, certe volte ti trovi davanti a delle situazioni veramente caotiche. Sia chiaro: i concerti sono sempre andati alla grande, le esperienze si sono sempre concluse nel migliore dei modi, su certe cose ce ne freghiamo. Ma l’esperienza che vivi è completamente diversa rispetto ad altre parti. L’ultimo nostro concerto in Italia lo suonammo in un club, non ricordo dove se devo essere sincero, e dopo lo show alcune centinaia di persone rimasero per il doposhow nel locale. Ecco, subito dopo il concerto, mentre stavamo smontando la nostra attrezzatura, il pubblico è stato protagonista di un dance pit durante una canzone dei Metallica. Ho pensato “È una delle cose più strane che ho visto in vita mia: vedere della gente che poga con un CD dei Metallica”. Una cosa bizzarra. Verremo in Italia con nessuna aspettativa, perché come ben sai il punk rock ha cambiato forma nel corso degli anni; ci aspettiamo un pubblico entusiasta, e so benissimo che non ci tradiranno. Vista l’esperienza passata, mi aspetto uno show molto partecipato. E sì, anche del grandissimo cibo!

Cover Photo: Epitaph Records