Dopo diversi anni di gavetta, che lo hanno portato a pubblicare una hit come “Supercalifrigida”, Mudimbi arriva al traguardo del disco di debutto con “Michel”, nei negozi dallo scorso maggio. Il rapper di San Benedetto Del Tronto, per metà pugliese e per metà congolese, è attualmente in tour per promuovere la sua ultima fatica.
Lo abbiamo incontrato in occasione del suo concerto all’Home Festival di Treviso in un’intervista nella quale ci ha spiegato la sua visione sull’hip hop nazionale e sul voler staccarsi dall’ombra di “Supercalifrigida”.
Come è stato emergere in una scena particolarmente inflazionata come quella dell’hip hop italiano degli ultimi anni?
In realtà la cosa è stata molto facile e naturale perché io non mi sento minimamente parte di questa scena italiana. Vero, faccio rap, sono un rapper, ma punti in comune tra me e il rapper medio difficilmente ne trovi. Mi hanno paragonato spesso, e mi fa molto piacere, a Caparezza. Mi sento talmente trasversale e fuori dai giochi, per scelta, al punto che questa cosa non l’ho mai vissuta come uno scoglio. Nella mia fanbase ho numerosi artisti che mi dicono “non ascolto rap, però mi piaci”. Ho metallari, ascoltatori di altro genere, perché le basi che uso sono molto diverse dal rap che gira oggi; nei miei testi non parlo della sfiga, del fatto che tutti ce l’hanno con me, fondamentalmente parlo della mia ragazza e dei rapporti di coppia. Mi piace tenermi terra terra perché, alla fine, sono così e non vorrei cantare o ascoltare cose che non rispecchiano né me né coloro che mi ascoltano.
Hai citato Caparezza, un artista che nasce come rapper, quindi figlio di un genere nato nella cultura afroamericana, ma con un background musicale ben radicato alla tradizione italiana e alla cultura pop. Nel tuo modus operandi guardi più all’Italia o all’estero?
Guarda, io prendo molto dall’estero e poco dall’Italia. Quando dico estero non dico Stati Uniti ma Germania. In realtà mi ispiro a tutto quello che mi torna utile, ma che non è detto che sia orientato all’hip hop o alla rima. Mi piace la musica acustica e quella strumentale, ma anche quella cantata… fondamentalmente ascolto poco hip hop, molto meno di quanto uno potrebbe credere. Prima di tutto perché è un piattume nel quale tutti navigano la moda del momento. Va di moda l’808 (drum machine della Roland, ndr)? Tutti che fanno album con la 808. Vocoder? Stessa cosa. Il punto è che anch’io sono il tipo di persona che, se trova qualcosa che gli piace, prende e cerca di imitarla. Ma non sono quello che batte il chiodo su quella cosa perché è la moda del momento. Non lo trovo stimolante e, chi lo fa, molto spesso parla sempre delle solite cose. Perché con un certo tipo di strumento, un certo tipo di produttore, di mood, di musica, di fatto ti porta a trattare sempre gli stessi temi nello stesso modo. Se usi la 808, per esempio, non puoi fare l’impegnato senza passare per sborone. Mi sono reso conto di avere la necessità di spaziare perché ritengo di avere molte cose da dire, un po’ come tutti, però ci tengo a dirlo. Avrei potuto continuare a fare “Supercalifrigida”, il pezzo più importante che ho fatto e che è uscito quattro anni fa e che è andato benissimo. Avrei potuto far fotocopie a nastro, ma poi non mi sarei più guardato allo specchio.
“Supercalifrigida” è il tuo brano più conosciuto. Non hai paura di cadere nella trappola dell’one hit wonder?
Guarda, questa cosa ce l’aveva Caparezza, con la paura di restare intrappolato in “Fuori Dal Tunnel”. A volte la cosa mi butta un po’ giù, però subito dopo arriva la parte stimolante perché pensi che sono passati quattro anni, e non quattrocento, e comunque è un periodo nel quale hai portato avanti lavori importanti.
Be’, prima di eguagliare Rick Astley e la sua “Never Gonna Give You Up”…
Certo! Comunque la vedo tuttora come uno stimolo. Certo, è un macigno insormontabile, ma in qualche maniera lo dovrò sbriciolare.
Sei per metà italiano e per metà congolese. Questa cosa ti ha messo qualche paletto o qualche difficoltà nell’emergere?
Più precisamente sono di San Benedetto Del Tronto e, molto spesso, ci confondono con i romani per l’accento simile. No, non è stato un ostacolo e in questo periodo, anzi, pare che la cosa stia giocando a mio favore. Se devo essere sincero, questa cosa mi dà molto fastidio perché non mi piace giocarla a mio favore. Ora c’è il filone delle seconde generazioni ma, personalmente, non voglio essere ricordato come il Mudimbi italo-congolese. Non ho legami con le mie radici, con mio padre non ho avuto un grande rapporto, con lui non ho parlato per anni e oggi non siamo neanche amici, e non conosco i miei parenti. La cosa non fa parte di me. Certo, la storia del ritmo nel sangue… però ti dico che la cosa non mi ha ostacolato né nella vita né dal lato professionale.
Il nuovo disco? Ha una copertina che ritrae te da giovanissimo.
Il nuovo disco è andato veramente bene e, sì, la copertina ritrae me da giovane. Un’idea che hanno avuto anche altri in passato, come Lil Wayne, e che ora anche altri in Italia hanno messo in pratica come Coez. La scelta della copertina è perché oggi il lo-fi, lo stile scazzato, fa figo. Io ho scelto questo tipo di copertina perché non avevo voglia di dedicare tempo a grafiche e cose simili, concept… facciamo una cosa terra terra, ci metto la faccia, musica spontanea, è quello alla fine che conta.
Cosa ti aspetti dal concerto a Home Festival?
Guarda, mi sento fortunato perché suono nel tendone e, se dovesse piovere, almeno restano tutti per ascoltarmi. Tornare qui è come una conferma: lo scorso anno suonai qui sul tour bus della Red Bull e sono felice di suonare in un palco con i controcoglioni. Quello che succederà andrà comunque benissimo. Dopo questi concerti ne avremo altri in programma da qui a gennaio. Pause? Spero mai, voglio suonare il più possibile.