Non nascondiamolo: Jared Leto rientra nelle persone che potrebbero avere ragione a prescindere. Bello è bello, bravo è bravo, impegnato è impegnato e a testimoniarlo c’è una carriera lunghissima, tra lavori in ambito cinematografico, musicali e sociali, essendo vegano da anni e attivo nelle cause di diritti civili.
Il punto è che da un lustro Jared Leto sembra aver preso la sindrome di Fassbender, quella malattia che ti porta a non azzeccarne una manco a morire. Dopo il meritatissimo Oscar per la sua interpretazione in “Dallas Buyers Club”, infatti, ha inanellato tre ruoli mediocri in “Suicide Squad”, nel quale faceva il meme di Joker, “Blade Runner 2049”, nel quale faceva il meme di Gesù Cristo, e nell’Original Netflix “The Outsider”, dove faceva il meme di sé stesso che entra nella Yakuza (una sospensione dell’incredulità che porta più fattibile una mia relazione con Alexa Chung). Ad aggiungersi, due dischi impalpabili con il suo passatempo, i Thirty Seconds To Mars, l’ultimo dei quali è “AMERICA” uscito venerdì 6 aprile.
“AMERICA” è nato come un progetto coraggioso: concepito come colonna sonora ideale di un documentario intitolato “A Day in the Life of America” la cui uscita è programmata per quest’anno, l’obiettivo che sembrava volesse raggiungere era quello di focalizzare gli Stati Uniti D’America odierni, una nazione in piena crisi di valori. Il punto è che tanta ambizione è risultata poi in un sonoro scivolone, con le sole “Walk On Water” e “Great Wide Open” dal messaggio politico forte.
Il resto dell’album è il trionfo della disomogeneità, cosa dovuta anche al fatto che nel progetto sono stati coinvolti ben sette produttori ognuno dei quali ha dato la sua impronta ai brani. “AMERICA” è anche cucito su misura per i fan e per la dimensione live, vista anche la quantità fin troppo elevata di cori inseriti, alcune volte in maniera azzeccata ma molte altre forzatamente. C’è ben poco da salvare (il duetto “Love is madness” con Hasley è tra questi), ma anche tanta mediocrità, con l’acustica “Remedy” che è banale ma anche prodotta così male da far sorgere il dubbio di un inserimento all’ultimo secondo. Il desiderio di esplorare sonorità più moderne, avvicinando il gruppo al mood del momento, è sì una scelta stilistica necessaria per mantenere una coerenza di fondo nel concept ma si è rivelata, alla conta finale, una mossa che non ha portato ad un lavoro organico ma ad un minestrone fatto male.
Con “AMERICA” i Thirty Seconds To Mars provano ad alzare l’asticella con il disco più impegnato della loro carriera, fallendo miseramente. Il grande peccato è stato quello di creare un hype stellare su un lavoro che, in tutta onestà, non aggiunge nulla alla loro carriera. Anzi, ridimensiona il valore dell’intero progetto.