L’ironia della sorte vuole che, proprio negli stessi giorni nei quali i Deep Purple (sembra che) daranno l’addio ai live nel nostro Paese, il loro ex bassista Glenn Hughes sbarca nel piccolo centro di Pordenone per proporre per la prima volta in Italia il suo format “Classic Deep Purple”, partito da Oceania e Sudamerica e che toccherà nel corso del 2018 anche Regno Unito e Stati Uniti. Nello specifico, il britannico ha scelto di esibirsi all’interno del Pordenone Blues Festival, consolidata rassegna dalla storia ultraventennale che lo ha ospitato come headliner della serata del venerdì.
In realtà la serata del venerdì è stato un vero e proprio show che ha presentato ben tre headliner che hanno condiviso il palco con il leggendario bassista; prima di lui infatti si sono esibiti i Dr Feelgood, band inglese in giro da quasi cinquant’anni, e Eric Gales, nome di spessore internazionale della chitarra blues che ha scelto proprio Pordenone per iniziare il suo tour europeo che lo terrà impegnato per tutto il mese di luglio. Ad entrambi è stato dato infatti un vero e proprio ruolo da coheadliner della serata, con dei set la cui durata si è avvicinata per entrambi all’ora.
Tipo di festival e la stessa lineup della serata hanno in parte influenzato la scaletta dello show di Glenn Hughes, la cui durata è stata di poco inferiore ai 90 minuti. L’inserimento in un festival blues ha infatti allungato lo spazio dedicato ai virtuosismi dei musicisti presenti sul palco e, combinato al tempo a disposizione, ha portato al taglio di un paio di pezzi rispetto alle date da headliner fatte in Sudamerica. Ciò non toglie che la scaletta presenta tutte le hit più clamorose della Mark III, con incursioni nel repertorio Mark II (le immancabili “Smoke on the water” e “Highway star”) e una cover dello standard “Georgia on my mind”, inno dell’omonimo Stato reso famoso da Ray Charles.
Ma parliamo del concerto, che può essere riassunto semplicemente in “Bomba clamorosa”. Pur accompagnato da dei comprimari che non hanno il talento di un Lord o di un Blackmore, il quartetto si è dimostrato compatto sin dalle primissime battute, in uno show tirato sin dall’inizio (iniziare con “Stormbringer” non è facile per nessuno) e con, come già detto poco sopra, un maggior spazio agli assoli visto il contesto nel quale è stato inserito il concerto.
Una cosa è da ammettere: conoscendo la sua storia, soprattutto tra la seconda metà dei Settanta e quasi tutti gli Ottanta, Glenn Hughes a 66 anni ci sarebbe potuto non arrivare. Invece ce lo troviamo nel 2018 ancora in forma, strepitosa, con una spiritualità forte e con il desiderio di condividerla con ogni presente e con un look che ricorda molto gli anni Settanta, con capelli lunghi e occhiali da sole tondi. Il concerto è tutto nelle sue mani e nelle sue corde vocali, ed entrambe non tradiscono: lo vedremo sparare acuti clamorosi una volta sì e l’altra pure, giocare di sguardi con il pubblico, incitarne i cori e, chicca per gli appassionato, sfoderare un Rickenbacker nella conclusiva “Burn”.
Per chi scrive e ritiene la Mark III dei Deep Purple una delle band più clamorose che abbiano calcato il rock degli ultimi cinquant’anni, la serata di ieri è stata una di quelle da ricordare negli anni. Per tutti gli altri, un’ottima serata con una delle voci più iconiche di sempre. Ma tranquilli: la promessa è che tornerà nel nostro Paese anche nella parte finale del 2018, come più volte affermato nel corso dello show. Ci sarete?