I Finley hanno pubblicato “Armstrong” a ottobre 2017 e, di fatto, non sono fermi da ormai due anni: tornati ad esibirsi live per il decennale di “Tutto E’ Possibile”, il quartetto lombardo ha girato l’Italia nel 2017 e nel 2018, con numerosi concerti che li hanno visti protagonisti anche nel periodo estivo. Un tour di supporto all’ultimo album che continuerà anche a fine 2018, con sei concerti tra novembre e gennaio 2019; il debutto si terrà venerdì 16 novembre all’Home Rock Bar di Treviso per poi proseguire con live a Senigallia, Bormio, Torino, Roma e Brescia.
In occasione del loro ritorno dal vivo, ripeschiamo una vecchia intervista con la band fatta un anno fa prima del loro concerto al Mame di Padova, che li ha visti protagonisti nel mese di novembre.
La copertina di Armstrong presenta nove loghi che compongono l’immagine del disco. A cosa vi siete ispirati?
Noi siamo attenti ad ogni piccolo dettaglio; volevamo costruire a livello grafico qualcosa di diverso fino a quanto fatto finora, giocando in maniera diversa anche con lo spazio. Come puoi intuire dal titolo, lo spazio è il filo conduttore di questo disco; non volevamo le solite cose e abbiamo creato una cosa originale basandoci su delle patch. Ci sono rimandi al simbolo della NASA, a varie cose che sono state curate dal nostro grafico, Mecna, col quale ci troviamo bene e siamo già alla terza collaborazione. Alcuni fan ci hanno inviato dei frame che, effettivamente, vorrebbero dimostrare dei richiami a dischi di altri gruppi. Una cosa contraria capitò con il nostro album “Fuori”, la cui copertina inizialmente voleva riportare delle foto di oggetti a noi cari; quella volta, invece, nessuno si accorse di questa cosa e ci trovammo nella situazione di spiegare questa cosa ai nostri fan. “Armstrong”, invece, non ha una scelta simbolica; di sicuro la nostra è una scelta concorrente perché la tendenza di oggi è quella di mostrare il prodotto, la tua faccia.
Il disco è una svolta electro. Come mai questa evoluzione, anche se siete stati una band sempre in continuo cambiamento?
L’album era già pronto la scorsa primavera; la scelta è nata dall’esigenza di far evolvere la nostra musica, rendendola più contemporanea. Abbiamo fatto dei dischi in passato, dove la componente pop e il concetto di power trio dominavano ed erano la nostra principale modalità di composizione. Sono passati ormai 11 anni dal nostro primo lavoro e avevamo la necessità non per forza di staccarci dal passato, perché andiamo fieri di quanto abbiamo fatto negli anni, ma semplicemente di portarci ad un livello successivo. Siamo cresciuti, i nostri ascolti sono cambiati e ci è sembrato stupido porci dei limiti in fase di produzione. Una certa rivoluzione o straniamento da parte del pubblico ce l’aspettavamo perché, anche se l’attitudine rimane sempre quella dei Finley, è cambiata la nostra consapevolezza e con l’arrivo ai 32 anni abbiamo deciso di affrontare il tutto con più leggerezza.
“Odio il DJ” è una sorta di risposta ad un’epoca nella quale gente come Calvin Harris e David Guetta sono visti come rockstar?
La canzone è una provocazione ed è nata per gioco, una canzone che live è travolgente. Il brano per noi è una goduria e mantiene quell’attitudine Finley che è energia, movimento, velocità e poca presa sul serio. La musica è questo: deve essere spensierata e essere un modo per far passare il tempo. Ovviamente non abbiamo una visione della musica esclusivamente di questo tipo, ma la affrontiamo anche in un modo più serio, più emotivo e dal punto di vista compositivo: la svolta eletro è una sorta di risposta anche alla situazione attuale. Oggi nel rock sono pochi i dischi che ci piacciono, nel genere c’è una staticità mostruosa perché molti hanno paura di perdere qualcosa. Un esempio è l’ultimo lavoro dei Foo Fighters, del quale siamo stati delusi ed un passo indietro rispetto a “Sonic Highways” e “Wasting Light”. Gruppi così importanti se peccano di coraggio, fondamentalmente, fanno saltare tutto il resto. Per noi rimangono delle divinità, di fatto stiamo parlando di Dio invano, ma ciò che molti si aspettavano qualcosa di straordinario sono rimasti delusi. E’ anche colpa di gruppi come Rolling Stones e AC/DC, che hanno fatto la storia con due accordi ma hanno immobilizzato un genere. Pensa anche ad una realtà come Virgin Radio: la accendi, la ascolti e ti trovi un pezzo che è a prendere la polvere da anni. Sinceramente credo che il rock debba trovare una nuova identità, un nuovo vestito; non siamo noi a dover far fare il salto del genere, ma artisti come Imagine Dragons e 30 Seconds To Mars hanno contribuito all’evoluzione del genere con sonorità shockanti. Le band del passato rimangono irripetibili e bisogna ancora ascoltarle, ma sono legate ad un passato.
Quindi nel rock è stato detto tutto o quasi?
Onestamente non lo so, perché oltre al discorso di sound ci sono anche dei discorsi da fare sui testi. Sicuramente c’è della staticità, della mancanza di freschezza. Ci sono nomi validi: penso ai Royal Blood che, pur essendo ancorati al passato, lo ripropongono in una chiave più energica e moderna.
Dal Regno Unito preferisco band come Slaves ed Enter Shikari, dei quali ho sentito alcune sfumature sulla vostra traccia “Keep Calm And Carry On”..
Con gli Enter Shikari suonammo in Svezia ad un festival diversi anni fa, nella cui lineup c’erano anche Avril Lavigne e My Chemical Romance, era il 2006. Noi eravamo sul palco prima di loro e sono stati veramente forti; sono un gruppo esagerato e ci ha colpito la loro attitudine, mescolando lo screamo alla techno passando per i suoni dei Refused. La canzone poteva tranquillamente essere proposto anche in una chiave più classica, ma gli abbiamo voluto dare una visione diversa per dargli un tono diverso. Altrimenti sarebbe potuto essere tranquillamente un brano dal nostro primo album.
“C’è una strada” e “Benzina sul cuore” sembrano in realtà un pezzo unico..
Raccontano due momenti diversi, uno racconta un luogo mentre l’altro lo ricorda. C’è sicuramente un filo conduttore tra le due cose e nella stesura di “Armstrong” sono stati questi a farci capire veramente la direzione che intendavamo prendere. Questo anche se buona parte dei brani erano già stati incisi in passato, l’inizio del 2017 ci ha fatto capire dove volevamo arrivare e, soprattutto, darci la consapevolezza di uscire. Con “Armostrong” siamo partiti con delle idee e solo in corso d’opera ha assunto la forma di una sorta di concept, con un inizio energico e una fine sognante. Era una cosa che volevamo fare dall’inizio, il racconto di una situazione che vive uno sgancio tra Armstrong e il suo obiettivo, una sorta di perdita di gravità che ti porta a “Pelledoca” che è una sorta di bolla.
Un bilancio del tour al giro di boa?
Più che un bilancio di questo tour farei un bilancio dell’intero 2017, anno nel quale abbiamo trovato una continuità live che ci mancava di anni, riattaccando una sorta di cordone ombelicale che pensavamo ci mancasse. Ed è stato bello perché ogni concerto ti offre certezze che pensavi mancassero; i fan ci sono e, anche a fronte di difficoltà economiche o impegni legati al lavoro e allo studio, troviamo molti che ci seguono in più date, una sorta di carovana che ci accompagna. Certo, ci siamo dedicati ad altre cose tralasciando i live e siamo sicuri che ciò ha influito sulla risposta importante da parte del pubblico. Nei concerti abbiamo anche scelto di invitare sul palco uno di loro per mostrare quanto abbiamo fatto negli anni, una cosa sincera e senza alcuna programmazione, come invece fanno gruppi più famosi come i Green Day che sul palco chiamano casualmente dei ragazzini fenomeni della chitarra, giusto per fare un esempio. Le cose più belle sono gli sguardi di chi è sotto al palco ed entra in sintonia con te. Quando fai la musica pensi a te, alla carriera e al tuo successo, sei egoista perché lo fai per te stesso. Però se questa canzone viene condivisa da altre persone, e diventa parte della loro vita, ci rende fieri, come una fan che ci inviò una mail per dirci che utilizzò un nostro pezzo come marcia nuziale. Abbiamo fatto un disastro, davvero!
Parlando di matrimonio.. come conciliate gli impegni familiari con la band?
Sicuramente è un casino stasera, perché perderemo la partita del Milan! I weekend sono una passione, con sveglia presto ma è una cosa che non ci fa soffrire. Siamo felici di quanto facciamo e i concerti sono di fatto il nostro relax, la nostra figata, questo perché durante la settimana siamo pieni di cose da fare. Non siamo gente che si adagia sugli allori: veniamo da famiglie che si sono fatte un mazzo tanto. Probabilmente, se avessimo avuto famiglie diverse alle nostre spalle, non saremmo qua dopo quanto successo: successo fulmineo che ti acceca, dinamiche che non sono sotto il tuo controllo, perdi visibilità, in molti avrebbero mollato. Noi no, siamo di un’altra pasta, gente che si sbatte e si rimbocca le maniche.