Sono i protagonisti di uno dei casi musicali del 2019: gli I Hate My Village sono quello che potrebbe essere definito come un supergruppo del quale fanno parte Adriano Viterbini dei Bud Spencer Blues Explosion, Fabio Rondanini (noto per i suoi trascorsi in Calibro 35 ed Afterhours), Alberto Ferrari dei Verdena e Marco Fasolo dei Jennifer Gentle, con l’ultimo anche nel ruolo di produttore.
La band, che ha pubblicato un disco omonimo all’inizio del 2019, è attualmente protagonista di un tour estivo che prosegue il successo di quello primaverile. Li abbiamo incontrati a Vittorio Veneto, tra le prime date di una serie di show che includerà, tra gli altri, anche la presenza allo Sziget Festival di Budapest.
Come è nato il progetto I Hate My Village e il disco d’esordio?
Adriano Viterbini: il progetto è nato 3-4 anni fa quando mi incontrai con Fabio per esplorare la musica africana facendo delle jam session e registrando qualcosa. Quando ci siamo accorti che l’interplay tra di noi era interessante e si poteva esplorare, come abbiamo fatto inizialmente nelle nostre sale prova, ad un certo punto abbiamo avuto la necessità di incontrarci con qualcuno che ci registrasse e fosse il regista della nostra visione. A quel punto abbiamo contattato Marco Fasolo, che reputavamo fosse la persona giusta.
Marco Fasolo: Confermo, la cosa è andata così. Quando mi hanno chiesto di dire la mia, niente, la cosa che ho pensato è che fosse fico ed interessante, ma già da subito proposi una stratificazione del suono, aggiungendo qualche linea di basso ad esempio, un’intuizione basilare che portasse un minimo intervento per amplificare la resa. Abbiamo visto che la cosa, aggiungendo altri strumenti, era andata ben oltre i provini iniziali. Altra cosa interessante è stata quella di suonare fotografando e suonando davvero, senza tenersi aperte porte per il dopo.
Inizialmente, Marco, eri accreditato solo come produttore. Ti senti un membro a tutti gli effetti?
MF: Forse non sono la persona più titolata a rispondere a questa domanda ma, per come la sto vivendo, direi di sì, senz’altro. Poi, appunto, all’interno di una band ci sono tanti ruoli; dal punto di vista autoriale e di paternità dei pezzi magari no, ma dal punto di vista di crescita del progetto è una cosa che abbiamo vissuto assieme. Un altro piede dentro c’è stato nel momento che mi chiesero di suonare dal vivo insieme a loro.
Questa scelta di suonare musica dalle radici africane è per caso un omaggio alle radici della musica che ascoltiamo oggi?
Fabio Rondanini: Esattamente, e credo di poter parlare anche a nome di Adriano. Nell’approfondire il mondo della black music, all’interno della quale vi è anche il funk, se vai a ritroso arrivi sempre all’Africa e ti trovi davanti un mondo sconfinato. All’interno della stessa Africa trovi un mondo di musica, e noi stessi abbiamo deciso di approfondire un solo pezzo, nello specifico il West Africano che ha le radici del blues. È un meccanismo che va avanti da sempre, la nostra musica è nata dall’Africa ma, oggi, ciò che è nato qui contamina la musica degli artisti africani. Questa è una delle ragioni per le quali Bombino ha voluto nella sua band dei musicisti occidentali: loro volevano guardare all’occidente quanto noi guardavamo all’Africa, come ad esempio abbiamo fatto con gli I Hate My Village. Non volevamo fare un disco di world music puro, ma inserire le nostre esperienze con i musicisti africani e con gli ascolti.
Avete mai pensato di fare un disco registrato in Africa, collaborando con gli artisti locali?
FR: Di sicuro questa è la prima cosa che ti viene in mente. Il nostro è stato un tentativo spontaneo di suonare quell’attitudine ed è un qualcosa che ci è piaciuto. Perché no le collaborazioni, ma vogliamo comunque ottenere un suono originale che, alla fine, è un mix di cose e non puramente africano, ma ci piacerebbe contaminare il nostro suono con elementi genuini provenienti da artisti africani. Non è una cosa che al momento abbiamo nei nostri programmi, ci è venuto più istintivo sviluppare questa cosa, anche ad esempio quando ci siamo trovati ad affrontare le linee vocali, nel nostro ambiente, nella nostra direzione e nella nostra lingua, intesa come formazione musicale. Ed è per questo che abbiamo voluto coinvolgere Alberto in questo progetto perché, di fatto, lui è una tela bianca nei confronti della musica africana.
MF: Gli I Hate My Village sono una visione, magari distorta ed errata, della musica africana da parte nostra. È un po’ come gli spaghetti western di Sergio Leone che, se avesse fatto l’ennesima imitazione di John Ford, non avrebbe ottenuto pari successo. Per come la vedo io, se dovessimo andare in Africa, più che puntare a certe sonorità dovremmo puntare a certi strumenti africani, suonandoli in maniera totalmente diversa rispetto a come li suonano loro.
FR: Non sapevamo cosa volevamo fare. Avevamo condiviso degli ascolti, ma il progetto si allargò per la partecipazione più che di programmazione vera e propria. Non avevamo delle idee chiare, né per gli attori che compongono il progetto né per il disco in sé.
AV: Abbiamo voluto incidere l’album che volevamo ascoltare e il disco che volevamo comprare e che ad oggi non c’era, chiamando le persone che potessero comporre il nostro gruppo ideale.
Perché la scelta di una cover di Michael Jackson nel precedente tour (“Don’t Stop Till You Get Enough”)?
FR: Perché lui è il vero Tony Hawk africano. Nasce tutto da una casualità, ma in realtà è forse l’esempio più eclatante di occidente che torna in Africa.
MF: Non c’è stata una particolare geometria, è stato un cazzeggio in Jam Session e ci è piaciuto sin dalle prime battute.
La copertina del disco è un concept che svilupperete anche nei prossimi lavori?
AV: La cover è stata disegnata da un artista romano specializzato in teschi e tatuaggi, uno stile molto horror. Il nome della band viene da un film proprio di genere horror africano e ha un manifesto con un disegno molto grezzo; l’idea che abbiamo avuto è quella di coinvolgerlo per una reinterpretazione di quella copertina e il risultato è quanto vedi.
Suonerete tra poco allo Sziget Festival e avete la particolarità di essere un gruppo italiano ma che suonerà musica dal respiro internazionale in un palco che ospiterà altri artisti europei. Avete grosse ambizioni?
AV: Non particolarmente, anche se la nostra musica guarda al mondo. Attualmente suoniamo principalmente in Italia perché è la naturale conseguenza immediata di quanto facciamo. Sarà una cosa divertente.
FR: Siamo consapevoli che sarà un’ottima vetrina ma non ci aspettiamo grandissimi risultati. Siamo adulti per capire che i risultati all’estero non si costruiscono con un solo concerto ma con un lavoro costante e lentamente. Di sicuro ci si misura con un pubblico diverso, andremo con uno spirito divertito e saremo noi primi con un’attitudine da spettatori, visto che anche noi andremo a vederci qualche concerto.
Perché uscire con un’etichetta italiana come La Tempesta International e non con un’etichetta estera? E perché uscire con il formato CD mesi dopo lo streaming, forse lo ritenete superato?
AV: La prima etichetta con la quale ci interfacciammo ebbe un difetto: saremmo stati in coda a numerose uscite che ci avrebbero visto pubblicare il disco dopo un anno. In quel momento avevamo la necessità di uscire subito perché pensavamo che la musica uscita subito fosse meglio.
FR: Comunque saremmo usciti in Italia. La Tempesta International è l’etichetta migliore per il nostro progetto perché ha un occhio e un orecchio sensibile per suoni diversi, ed inoltre è il tetto ideale: sono musicisti come noi. Sul discorso CD sì, è già un formato superato. Il CD lo abbiamo fatto uscire per pubblicare del materiale inedito che volevamo far uscire, ma abbiamo preso atto comunque che in molti ci hanno chiesto il CD, ed è anche questo il motivo che ci ha spinti a stamparlo.
MF: Il CD è superato ed è stato messo in un angolo non tanto da chi la musica la suona ma da chi la musica la fruisce. Se devi spedire delle copie fisiche però resta il formato migliore: è più facilmente gestibile e stoccabile rispetto al vinile, senza contare la fragilità dell’ultimo. Il CD non è morto, però sta vivendo in una sorta di penombra: da ascoltatore il vinile è molto meglio, un file in alta risoluzione è sicuramente più pratico. Sarà destinato a rimanere una cosa prettamente per gli addetti ai lavori.
Una domanda veloce per ognuno di voi quattro. Adriano: quali sono le collaborazioni in essere e quanto dovremmo aspettare per un nuovo disco dei Bud Spencer Blues Explosion?
AV: Come collaborazioni attualmente sono nella band di Nic Cester, mentre per i Bud quando avranno buona musica la faranno uscire.
Alberto: in questi giorni c’è stato l’anniversario di Valvonauta. L’Alberto Ferrari del 1999 si sarebbe mai aspettato di arrivare dove è arrivato parlare di musica africana, vent’anni dopo, nel mezzo delle colline del Prosecco?
Alberto Ferrari: Sulla prima domanda no di sicuro, sulla seconda perché no? Diciamo che questo anniversario l’ho scoperto stamattina per caso, leggendo su Internet. Ricordavo bene l’anniversario, ma non il giorno preciso. So che ultimamente c’è questo trend della nostalgia, ma per quanto mi riguarda ascolto solamente musica nuova, non ho niente di nostalgico. Non capisco il senso di ascoltare musica vecchia; la ascolto, ovvio, ma ho bisogno anche di nuovi input.
Fabio: sei un turnista affermato. Hai mai pensato di fare un progetto tuo?
FR: Beh, ti rispondo alla rovescia: non mi sento turnista perché in tutti i miei progetti cerco di metter dentro degli elementi di solismo, nel senso che mi sento me stesso. Non mi ritengo tale e lo dico senza polemica, anche perché non esiste più un mondo nel quale vieni assunto ad ore, è roba finita anni fa. Per il resto sì, ci ho pensato ed è una cosa interessante. Ma per il resto non mi ritengo un turnista, ma più un musicista da band. Fantasie di fare un disco ne ho, ma non lo farò mai.
Marco: come ti sei sentito ad essere il primo artista in Sub Pop?
MF: Di sicuro è stata un’esperienza piacevole ma quando è successo l’ho visto più come una partenza che come un arrivo. Era un periodo nel quale arrivavamo da autoproduzioni e il primo pensiero è stato quello che finalmente potevamo iniziare a fare qualcosa, come ad esempio nuove date o altro, soprattutto all’estero. Di sicuro non ci siamo galvanizzati e mi ricordo che la reazione con me stesso fu pacata. La risposta è “boh”, ma ho visto l’opportunità di poter ragionare in maniera non grande ma sensata, con la possibilità di confrontarsi con altri. Ed è questo il problema del nostro paese, la mancanza di confronto. È per questo che pochi crescono, ed è per questo che ritengo figo sopra ogni altra cosa un progetto come gli I Hate My Village, nel quale vi sono quattro persone, chi più bravo e chi meno.. io per esempio dei quattro mi reputo il meno preparato perché, a parte lo studio, ho sempre e solo suonato le cose mie e nella mia band, mentre loro, e soprattutto Adriano e Fabio, hanno collaborato con altri artisti, cosa che permette loro di avere un approccio ed un attitudine che io non ho. Per semplificare il concetto, siamo quattro musicisti di identico livello che fanno parte di un progetto che ci permette di rimbalzarci energie ed intuizioni che ci permettono di migliorare e di confrontarci. Se questo succedesse anche su diversi livelli gerarchici, e magari anche tra persone che non si conoscono, il mondo sarebbe migliore. Ed è una cosa che in Regno Unito e Stati Uniti funziona, mentre qui c’è l’attitudine della stronzetta che non ti fa copiare il compito. Forse manca la curiosità di ascoltare e suonare con gli altri e per crescere la cosa deve funzionare così, e non solo nella musica.
Foto dell’articolo di Martina Barbon, concerto allo Sherwood Festival di Padova