Nove mesi sono passati da questa intervista ad Immanuel Casto, fatta poche ore prima del suo concerto al New Age Club di Treviso dello scorso dicembre, ma dai toni ancora attuali. Certo, lo scenario di fine 2018 non aveva ancora svelato il culmine di alcuni eventi politici che sarebbero esplosi nell’anno in corso, tra omofobia e critica verso il diverso, ma molti dei temi toccati in questa chiacchierata, fatta in occasione della pubblicazione della raccolta “L’Età Del Consenso”, tracciano uno scenario che vede il futuro con un moderato ottimismo. L’artista di origine lombarda si esibirà domani, mercoledì 4 settembre 2019, all’interno del Padova Pride Village.
“L’Età Del Consenso”: perché una raccolta dopo quattordici anni di carriera?
Allora, il titolo non è casuale. In realtà ho già pronto del materiale inedito, che probabilmente uscirà l’anno prossimo, ma attualmente sto sperimentando una direzione diversa che costruisce su quanto già fatto. Non tutti sanno che in Italia l’età del consenso è proprio 14 anni e si parla di consenso quando c’è consapevolezza. Quando iniziai chiudendo le prime sperimentazioni amatoriali volevo divertirmi, ma non c’era una vera intenzionalità. Oggi invece sono consapevole di quanto sto facendo. Il desiderio di fare questa raccolta è quello di fare un punto della situazione e di celebrare il percorso fatto.
Una raccolta che presenta anche due inediti. Uno è “Piromane”, un brano che hai scritto di getto alla luce di quanto sta succedendo in questo periodo?
In realtà no, perché il brano lo scrissi diversi anni fa, tipo nel 2015, ma è stato adattato a livello lessicale. Il tema c’era già e, come “Ma che bella la cappella” che si svelò profetica per gli scandali avvenuti in Vaticano, anche questo aveva letto il futuro. Non è stata una scrittura semplice perché da un lato volevi denunciare una situazione ma, dall’altro, non denunciare questa rabbia. Se lo ascolti bene è un brano che invita a dar fuoco delle idee, complottismo e populismo, e non alle persone.
La stessa impressione si ha ascoltando “Goodbye Milano”; per caso la hai scritta al fatto della tua scelta passata di lasciare Milano?
In realtà no. Per questo brano c’è stato anche un coautore, Mattia Fiorin di Milano, e l’idea era partita da lui per raccontare la realtà imprenditoriale milanese. Personalmente Milano è una città che mi piace, se mi limito a giudicarla per il respiro culturale, l’unica città italiana di profilo e ambizione europeo. Quello che si critica è la mentalità di vuoto arrivismo ed è una presa di distanza da quel modo di vivere.
Perché hai scelto questi pezzi per la raccolta?
È stata una scelta difficilissima. Non l’ho chiamato best of e greatest hits perché per come la vedo io è una cosa che porta sfiga, perché spesso vengono fatti postumi. Negli anni Ottanta quello delle raccolte era un format usato tantissimo anche se, a livello di star pop, ho sempre guardato a Madonna, che la sua prima raccolta fu “The Immaculate Collection” al quale seguirono poi trent’anni di carriera con parentesi più o meno interessanti. Presuppone anche che il meglio debba ancora venire. I brani sono fondamentalmente tutti singoli ma anche brani, come ad esempio “Touché”, che sono usciti come video e che qui non trovano spazio, come viene dimenticato anche tutto il mio esordio più verace. Alla fine ho scelto probabilmente quelli che sono i miei brani più noti e che i miei fan si aspettano per una raccolta di questo tipo. Può anche essere un punto di partenza per chi conosce la mia opera e qui vorrei fare un discorso nel discorso. Sono un artista della scena alternativa e sono grato della fama che ho ottenuto negli anni, e mi fa piacere vedere che negli anni il progetto sia cresciuto, certificato anche da un tour che è andato sold out in più date. Posso dire che è il tour migliore finora, che ho scelto di ridurre in poche date in location che mi piacciono e che mi hanno permesso di portare il tour nella forma che ho sempre voluto.
Musica è anche politica. Come stai vivendo questo periodo, da artista e da cittadino?
Tante cose da dire. Al momento si sta vivendo una profonda involuzione culturale e, anche se è facile puntare il dito su qualcuno, credo che questo voler guardare al passato sia sintomo di vivere sentimenti di paura. E se c’è questo alla base c’è di sicuro una ragione. C’è chi ci marcia sulla paura, diffondendola, ma c’è anche quando semini molta incertezza. Per come la vedo io, quelle forze che negli anni si sono definite progressiste hanno fallito per tutta una serie di ragioni, anche quell’elitarismo che spinge ad etichettare qualcuno come stupido o ignorante. Molto probabilmente lo è, e spesso lo sono, ma dirlo non aiuta la persona dall’altra parte a capire le tue idee. Questa è una scelta che non ha pagato. Sono fondamentalmente ottimista e vedo questo come un ciclo storico, che durerà un paio di governi; poi ci si accorgerà che una politica fondata sulla paura del diverso è sostanzialmente miope e, nel tempo, ci sarà una forza alternativa che avrà l’impegno di costruire. Sul discorso della politica che non dà ampio spazio alle cause LGBT è vero ma al tempo stesso, pur essendo estremamente solidale alla causa, cerco di non farne una cosa di settore. Penso che la causa della diversità debba puntare sul valore della stessa: non va bene il uno vale uno, siamo tutti uguali, meglio essere tutti diversi, anche solo per l’arricchimento e il confronto che uno scenario di questo tipo porta. La tutela della diversità, contro chi vorrebbe eliminarla, è una battaglia che chiunque può capire: non devi essere omosessuale, di altre etnie o di categorie socialmente deboli. È richiesta solo intelligenza, cultura e sensibilità. Per questo cerco di non spingere mai il tema sulle cause LGBT, ma di rendere un discorso di tutti e in questo senso bisogna ragionare. Vedi anche la parità di genere, che può portare anche ad una competizione contro gli stessi uomini: un uomo è perfettamente in grado di essere femminista come una donna essere maschilista. Sono le idee a dover essere combattute, non le categorie demografiche.
E come vedi coloro che ti criticano, indicandoti come artista trash?
Tendo a dimenticarmene perché vedo il tutto dentro la mia prospettiva interna, preferendo concentrarmi sulle cose positive. Certo, se ci sono persone che la pensano così significa che ci sono segnali che hanno spinto loro a pensare a questo. Non nascondo che i miei inizi hanno percorso quelle direttive goliardiche, che non rinnego minimamente. Credo in un lavoro costante, non nell’alzarmi alla mattina e diventare di colpo un artista serio, poi il resto verrà tutto da sé.
In 14 anni di carriera cosa ti manca? Forse quel Sanremo che in passato avevi detto di esser pronto ad affrontare?
In termini quantitativi sono grato di quanto fatto, anche se punto sempre a crescere anche come visibilità. Dal punto di vista qualitativo invece ho tante idee in cantiere da mettere in pratica, essendo una persona che adora spaziare nei vari media, progetti cinematografici ed editoriali. Sanremo sarebbe un’esperienza importante, e non solo per il prestigio della rassegna ma anche per il messaggio in sé: la proposta artistica non è buona, anche per meccaniche che ti portano a scrivere brani che sfigurano nella tua intera discografia, salvo quelle poche eccezioni che confermano la regola. È chiaro che sotto c’è un lavoro di tipo contrattuale fatto con l’etichetta di riferimento, è evidente che non ci sia un progetto artistico. Ma non è solo la musica ad essere buona ma anche il format stesso, che vede ad esempio dei siparietti comici improvvisati. Non è un contesto piacevole, ma per l’importanza del messaggio è una cosa che farei volentieri.
Hai pubblicato negli anni molte cose al di fuori della musica, come ad esempio dei giochi di carte. Per realizzarli sei autonomo o hai un team alle tue spalle?
Non sono autonomo al 100% ma quasi, ed è una cosa che mi “blocca” in altri progetti. In questi giochi di carte, Squillo ad esempio, faccio letteralmente tutto io: creazione delle meccaniche, grafica, scrittura testi. Il tutto escluso le illustrazioni, per le quali mi appoggio a persone fidate con le quali mi confronto: pur avendo ben chiare le idee sul mio progetto, ho sempre apprezzato il confronto, il feedback per migliorare quanto ho in testa. Molto spesso, invece, ci si trova ad aver a che fare con persone che, oltre ad essere arroganti, hanno anche le idee molto confuse. Nel 2019 pubblicherò altri giochi, il disco che prima avevo accennato ed altri progetti mediatici ma che, essendo ancora in una fase embrionale, non posso ancora definire nel dettaglio.
I 14 anni sono gli anni nei quali di solito un ragazzo decide cosa voler fare da grande. Che progetti ha Immanuel Casto?
Io ho la fortuna di poter dire di aver capito cosa voglio fare da grande, ed oggi è un traguardo non da poco anche se a dirlo è uno che ha compiuto 35 anni. Molta gente della mia stessa età non è consapevole del suo futuro, e questo può anche capitare per colpe non loro, ma è il risultato di una serie di dinamiche alle quali assistiamo. Ho sempre voluto divertire, divertirmi ed intrattenere, ma sono arrivato al punto che vorrei anche ispirare, ad esempio un messaggio positivo; sento in me la capacità di farlo, e quindi anche il dovere di farlo.