In una prima metà del 2020 caratterizzata da cancellazioni e difficoltà, l’estate è arrivata per dare un minimo di respiro e speranza per un settore come quello della musica live, falcidato dalla pandemia di Covid-19. In questo contesto si sono inseriti anche i Mellow Mood, band pordenonese ma con il cuore in Giamaica che ha vissuto in prima persona i sacrifici del periodo, essendo un gruppo abituato a girare il mondo per suonare la propria musica.
I friulani saranno tra gli ospiti del Music In Village, che chiuderanno il 29 agosto con uno show acustico per loro inedito. Abbiamo parlato di questo con Lorenzo, uno dei cantanti della band.
Avete pubblicato sui social poche settimane fa un teaser del nuovo singolo, “Mr. Global”. Quando lo pubblicherete?
Bella domanda, vorrei potertelo dire! Non so perché siamo praticamente pronti, dovrebbe essere già stato pubblicato, ma abbiamo in ballo un sacco di cose. Questo perché sarà parte del nuovo disco che uscirà nel 2021, quindi stiamo in procinto di firmare alcuni accordi discografici e, per questo motivo, siamo ancora in attesa.
Quindi cambierete etichetta?
Non cambieremo etichetta, ma stiamo cercando di espanderci più. Sono dettagli sui quali non posso dirti nulla, stiamo ancora capendo il da farsi ma saremo ancora con Tempesta International e Tempesta Dub.
Suonerete al Music In Village il vostro primo show del 2020, il 29 agosto e in acustico. Che tipo di concerto presenterete in questa veste inedita?
Non lo so, dobbiamo ancora fare le prove e non ne ho idea. A noi piace suonare in acustico e non ricordo se ad oggi ne abbiamo fatti, se non per delle cose online come in questo periodo di quarantena. In realtà già a settembre abbiamo riarrangiato cinque pezzi acustici e suonati in un condominio qui a Pordenone. Anche se faremo le prove in questi giorni, sicuramente suoneremo i nostri pezzi più conosciuti, uno show energetico pur in veste acustico.
Due anni fa è uscito “Large”. Un bilancio di questi ultimi due anni?
Le aspettative sul disco sono state soddisfatte, perché è andato molto bene; le aspettative sul reggae in generale invece non sono state soddisfatte. Dal 2018 il genere sta affrontando un po’ di crisi, che ovviamente non ha colpito in egual modo tutti. Chi va bene ne ha risentito poco per dirti. In giro c’è poco reggae, band reggae in Italia quasi non ce ne sono più, che fanno tour di fatto ci siamo solo noi. In Europa va un po’ meglio solo nelle grandi capitali, ma per il resto sta andando molto male.. è una fase dove il reggae è in sordina. In Giamaica invece c’è un grande fermento, ci sono nuovi nomi come Koffee che in due anni ha fatto quanto un artista fa in tutta la vita. In Giamaica la musica reggae non si ferma mai, ma nel resto del mondo c’è difficoltà. Con il Covid, essendo saltata la stagione festivaliera, l’unico augurio è che ci sia una partenza veloce ed esplosiva per il 2021.
Quanto tempo vi occupa seguire Tempesta Dub e quando darete maggior spazio ad altri artisti?
Per il momento abbiamo solo alcuni artisti, come Forelock And Arawak. Negli ultimi anni il lavoro che ci ha richiesto molto tempo è quando abbiamo fatto uscire quel grosso documentario in Giamaica. Attualmente ci stiamo dedicando al disco nuovo però è uscito poco tempo fa il disco di Paolo Baldini con Imperial Sound Army. Ti dico la verità, tolto Giulio il nostro bassista che spende più tempo degli altri, l’etichetta non è una cosa che ci richiede un grosso impegno, ma una volta che usciremo con il disco avremo tempo per fare altro. Per ora siamo chiusi in studio per far musica, vedremo cosa succederà in futuro. Ogni volta che troviamo qualcosa di bello lo pubblicheremo; il problema è che, con una situazione non rosea, non è facile trovare artisti da produrre e promuovere. Al momento però abbiamo due cose interessanti in forno, ma al momento siamo solo in cucina a lavorare.
Il Friuli non è terra di reggae, ma per molti anni ha ospitato il Rototom Soundsplash, il festival reggae più famoso d’Europa. Come è stato emergere in questo contesto?
Noi siamo nati quando in Friuli c’era ancora il Rototom Soundsplash, che al tempo era la regione nella quale dovevi andare se volevi vedere gli artisti belli. In un certo senso, la mia regione è stata terra di reggae. Poi è chiaro che in Italia ci sono stati altri gruppi, come i Sud Sound System, Alborosie, Africa Unite; comunque sia il Friuli era un punto di riferimento perché potevi vedere quegli artisti che altrimenti non avresti mai visto, un periodo storico dove c’era un grosso fermento. Salvo qualche sporadico episodio mainstream, il reggae rimane una musica underground; va bene così, ma è ovvio che quando certi festival iniziano a mancare, come il Rototom che venne a mancare per ragioni indegne, si crea un vuoto, perdi un mezzo per veicolare la musica. C’è stato il Venice Sunsplash, ma non ebbe la forza di andare avanti e durò un paio di anni. D’altronde Rototom andando in Spagna ha guadagnato moltissimo: molti più paganti, bel clima, almeno non corri il rischio di trovarti la pioggia tutto il giorno!
Avete partecipato al Jova Beach Party, festival che, leggendo gli articoli in giro, è stato dipinto da molti come un evento rivoluzionario. Avendolo vissuto in prima persona, è così?
Beh, secondo me sì perché è nato in un periodo nel quale i festival non c’erano e, in un contesto come questo, Jovanotti ne ha organizzati diciotto. Rassegna che è andata benissimo, con decine di migliaia di persone ogni sera. E’ un evento dal successo inaspettato, una follia totale. Detto questo non credo che in altri in Italia possano permettersi di organizzare un festival di questo tipo; un festival fatto nelle spiagge, a Plan De Corones, all’aeroporto di Linate, in location più disparate possibili. Un contesto assurdo dove hai visto artisti che non vedi molto spesso in Italia. Personalmente mi è sembrato un esperimento riuscito e, al di là dei costi, fare un festival itinerante come questo in uno scenario come quello italiano può essere visto solo come un successo.
Siete sempre stati una band abituata a girare il mondo per suonare dal vivo. Come è stato rimanere fermi in questo 2020?
Brutto, anche perché avevamo in ballo un tour che è ovviamente saltato. Già a febbraio ci eravamo fermati a fissare date, spostando all’anno prossimo ogni data possibile. Non è stato bello, sia chiaro, ma ci sono stati comunque dei lati positivi in questa quarantena: ti ritrovi il flow, trovi l’equilibrio, lavori da casa in maniera sana e proficua. Non girare però è una cosa veramente stressante dal punto di vista mentale e impegnativa dal punto di vista economico: fermare a casa una squadra di dodici persone.. son cazzi, scusa il francesismo. Una speranza per riprendersi è, ad esempio, il coraggio delle amministrazioni per tenere aperti almeno i concerti in piazza, utile per far vedere che comunque si sta facendo qualcosa. I festival organizzati e gli eventi dei privati, invece, facile che subiranno forti riduzioni. Il problema è che si vocifera che già in autunno si chiuderanno di nuovo i club, oppure dovranno applicare delle condizioni particolari che renderanno difficile l’organizzazione e difficoltà per il musicista, che dovrà ridurre il cachet, e per il promoter, che dovrà aprire il club consapevole di guadagnare meno. La sensazione è che si inizierà come prima tra una decina di mesi, a giugno; personalmente ho la testa all’estate prossima, per quanto mi auguro si riesca a fare qualcosa prima. Si parla che aprile si torni ad una normalità, ma molti preferiranno aspettare l’estate. Il problema è vedere quanti arriveranno alla primavera.. la situazione è tragica. Il problema di fondo è uno: se apri, giustamente, ristoranti e discoteche, perché non riaprite i concerti? Stiamo vivendo un momento così, l’importante è che finisca presto.
Avete debuttato discograficamente nel 2009 “Move”, un disco DIY nella sua massima espressione: no etichetta, no ufficio stampa. Vi sareste mai immaginati nel 2009 di arrivare qui?
Sì e no, perché per poter vedere il nostro futuro al tempo non avevamo gli strumenti per poterlo interpretare. Suonavamo in giro sì, ma sapevamo pochissimo di questo mestiere. Ci auguravamo di far strada, ma al tempo non avevamo gli strumenti intellettuali per arrivarci, come farlo. In verità no, anche perché all’inizio quando hai poco non pensi a quello che fai, fai e basta. Solo successivamente ti poni quesiti su vendite, paganti e quant’altro.
E il momento preciso nel quale avete detto “Cazzo, forse ce l’abbiamo fatta”?
Ti dico la verità, non so se ce l’abbiamo fatta. Di sicuro abbiamo capito che le cose stavano cambiando con il primo viaggio in Giamaica sei anni fa. Il momento del “ce l’abbiamo fatta” non credo sia ancora arrivato: siamo già una band che fa da headliner in tutto il mondo, siamo un gruppo che se ascolti reggae tutto sommato dovresti conoscere. Il nostro approccio è quello che puoi sempre arrivare più in alto.