Una cosa è certa: se potessi decidere di diventare un musicista di spessore internazionale non sceglierei Dave Grohl o Josh Homme. E non perché li ritenga i personaggi più antipatici della scena internazionale, anzi. Loro sono dei patatoni teneroni che vorresti avere come BFF (su questo c’è un testimonial d’eccezione, Jesse Hughes) o almeno averli come vicini di casa (non oso immaginare la sfilata di regaz fuori dalla casa di Grohl). E no, neanche perché la loro carriera è costellata da dischi mediocri: ci sarebbe gente che venderebbe la famiglia per inciderne del loro spessore. Non vorrei esserlo per un motivo legato comunque al precedente: hanno saltato lo squalo e devono ancora riprendersi.
– Papà Castoro, cosa vuol dire “salto dello squalo”?
– Castorino, prenditi a schiaffi perché non hai studiato la biografia del più importante influencer dell’era contemporanea e neanche hai avuto il tempo di andare su Wikipedia. Brevemente: il salto dello squalo è un concetto con il quale si spiega quando una serie TV ha raggiunto il suo picco e da lì in poi il livello qualitativo scende. Si usa questo termine perché da quando Fonzie saltò lo squalo, in boxer e giubbotto di pelle, Happy Days non fu più come prima, iniziando un declino dal quale non si sarebbe più ripresa. Capito?
– Sì Papà Castoro, posso tornare a guardare i video di Favij?
– No, piuttosto vai a vederti quelli di Mia Khalifa, tanto li vedrai comunque tra qualche anno.
Ogni tanto serve mettersi la mano sul cuore e scindere il valore di un gruppo dall’essere loro fan. Sono fan di entrambe le band, i Foos li ho visti a Berlino non più tardi di una settimana fa per esempio. Per carità, dal vivo sono due gruppi clamorosamente indiscutibili, sul palco asfaltano ed è anche grazie alla loro potenza on stage che sono diventati ciò che sono, ovvero due dei nomi più importanti della scena rock mondiale dell’ultimo ventennio.
I Foo Fighters e Queens Of The Stone Age sono gruppi che ormai hanno raggiunto la vetta da diversi anni. In studio tuttavia, se va bene hanno sfornato dischi buoni, se va male veri e propri sottobicchieri.
I percorsi non sono stati però uguali per entrambe le band, anzi. Delle due a soffrire di più questo stato è la band capitanata da Josh Homme. I Queens Of The Stone Age, nati già da una costola di una delle band più leggendarie del rock anni Novanta (i Kyuss) decisero di scavarsi la fossa al terzo studio album, storicamente il punto di svolta per la carriera di un qualsiasi gruppo, che a quel punto ha svoltato in positivo (Bruce Springsteen, Radiohead, Metallica) o negativo (qualitativamente, gli Oasis in realtà da lì in poi non si videro intaccato il loro successo). “Songs For The Deaf” è di fatto il disco di un supergruppo: per l’occasione, Homme e Nick Olivieri (uscirà dalla band un paio di anni dopo) scelgono di reclutare in formazione due colossi come Mark Lanegan e Dave Grohl, rispettivamente a chitarra e voce e batteria. Il disco sarà un vero e proprio capolavoro ed è considerato, meritatamente, uno degli album rock più importanti del Terzo Millennio, se non il più importante. Di fronte ad un’opera di quel livello è inevitabile che venga fatto un confronto con le successive opere che, in tutta sincerità, non possono neanche competere con l’opera sopra citata. Dischi dei quali la stampa specializzata ha comunque tessuto elogi molto importanti, ma più per timore reverenziale nei confronti di quella che è una band buona ma niente di più che altro.
Più estrema la posizione dei Foo Fighters: se analizzi in maniera più o meno oggettiva la carriera ventennale del combo, di fatto si parla di un gruppo che ha fatto due grandi dischi e, per il resto, materiale con il quale puoi riempire a malapena un doppio best of. Sì, dispiace dirlo ma i Foo Fighters sono forse la band più sopravvalutata degli ultimi trent’anni. Dave Grohl, tanto bonaccione e pacioccone, in realtà ci sta prendendo per il culo più o meno dall’uscita di “There Is Nothing Left To Lose” in avanti. E sì, ci ha preso ancora di più per il culo con quell’opera imprescindibile chiamata “Wasting Light”, con la quale ci ha dimostrato che, se mettesse un minimo di voglia e di coraggio nella composizione, potrebbe ancora sfornare grandissime cose. Il timore reverenziale nei confronti di Dave Grohl e soci è ancora più amplificato rispetto a quello dei Queens Of The Stone Age: se guardi in giro (e non serve limitarsi al popolo di Virgin Radio), Grohl è considerato al pari di una divinità, il Bruce Springsteen della nostra generazione e i Foo Fighters una squadra fortissimi fatta di gente fantastici. In realtà se dietro al microfono non ci fosse stato “il batterista dei Nirvana” e se, negli anni Ottanta, gli Hüsker Dü non fossero mai esistiti, molto probabilmente, avrebbero fatto la fine dei Bush di Gavin Rossdale, tanto per fare un esempio a caso.
I Foo Fighters hanno fatto un solo e vero capolavoro. Non nascondiamoci dietro al famoso dito: “The Colour And The Shape” è effettivamente una cosa veramente grossa, un totem del rock degli anni Novanta e tra le migliori opere uscite in quegli anni. “Monkey Wrench”, “Hey! Johnny Park!”, “My Hero” e la clamorosa “Everlong” sono solo le quattro canzoni più eclatanti di un capolavoro che, dal primo all’ultimo secondo, non sbaglia nulla. Peccato che il resto della discografia, tolto il già citato “Wasting Light”, non possa lontanamente competere con quel lavoro. Di “There Is Nothing Left To Lose” molti se ne ricordano perché, di fatto, ci fu un bombardamento mediatico da parte di MTV che, molto spesso, ti porta a ricordare le canzoni più per i riuscitissimi video che altro; dei successivi tre lavori, a malapena, riesci a pescare due grandi tracce per album (e, nota bene, di questi uno è un doppio album) e degli ultimi due, in tutta sincerità, il materiale da salvare non è che si discosti di molto da quanto detto prima. E allora perché tutti parlano dei Foo Fighters? Perché sono una clamorosa e fottutissima macchina da marketing, capace di vendere dei brani tutto fuorché eccezionali e farli passare per dei capolavori imprescindibili, grazie anche a dei fan e a una critica che difficilmente ha analizzato in profondità le recenti composizioni.