“The Great Electronic Swindle” dei Bloody Beetroots è una bomba assoluta, ma presenta un enorme difetto: la scelta di ospiti presenti, presi dai più disparati mondi musicali, ha portato ad un disco vario ma forse troppo.
Ma scendiamo nel dettaglio: il nuovo album esce per la Last Gang Records, label nota per aver portato al successo un nome da niente come i Crystal Castles, e chiude un lungo periodo nel quale i Bloody Beetroots erano inseriti nel recinto della musica elettronica. Ora il gruppo decide di fare di testa propria ed esprimere in musica tutte le sfumature musicali che fanno parte del background di Sir Bob Cornelius Rifo. Il risultato è un lavoro nel quale la varietà regna sovrana, dove convivono l’anima rock, metal, punk ed elettronica di uno dei più eclettici artisti usciti dal nostro Paese di, sbilanciamoci pure a fare un’affermazione pesante, sempre. A tenere alta la bandiera del rock e del punk troviamo i Jet che fanno il verso agli AC/DC in “My Name Is Thunder”, Perry Farrell che fa il verso ad un nu metal d’annata su “Pirates, Punks & Politics”, gli impalpabili Gallows in “All Black Everything” (nota bene: di questo brano è più degno di nota l’ultimo mezzo minuto del resto) e un altrettanto intangibile Anders Friden degli In Flames su “Irreversible”, con le Deap Vally che a fine disco trionfano nella sfida con la concorrenza nella riuscita “Drive”.
Il meglio però arriva nei brani più elettronici, e da questo punto di vista la sorpresa giunge da un rocker di razza come Jay Buchanan (Rival Sons) che presta la sua voce in “Nothing But Love”, pezzo electrorock che colpisce già dal primo ascolto e che porta virtualmente i Led Zeppelin in una dimensione EDM. Ottime anche le collaborazioni con Greta Svabo Bech, vocalist diventata famosa per aver collaborato con Deadmau5 e che ha prestato la voce su “Invisible” e “The Great Run”, e la canzone “Saint Bass City Rockers”, strumentale dove Rifo balla da solo e lo fa alla grande.
In una realtà come quella italiana “The Great Electronic Swindle” è un disco che equivale ad una vera e propria colata di grasso: sono pochi i lavori di respiro così internazionale e di qualità capaci di uscire dal nostro Paese. Il punto è che un album del genere è fin troppo vario per essere compreso dal pubblico italiano medio, che non riesce a digerire un qualcosa che vada oltre al seminato delle radio commerciali. Una cosa è certa: se i Bloody Beetroots si fossero formati in Regno Unito o negli Stati Uniti, state certi che Simone Cogo avrebbe già fatto razzia ai Grammy Awards. E, molto probabilmente, avrebbe una fanbase italiana molto, ma molto più ampia.