Quello di Bologna verrà ricordato come il secondo e ultimo spoken word della carriera di Henry Rollins in Italia? Beh, visti i numeri esigui mossi in entrambe le serate, sembra quasi scontata la risposta positiva al quesito. Che il “The Long March” tour dovesse essere considerato uno spettacolo di nicchia era cosa nota già dall’annuncio della scorsa estate, ma mai ci si sarebbe aspettati una risposta così moscia dal pubblico italiano.
Peccato, perché la qualità non è mancata nella maniera più assoluta. Lo show di Henry Rollins infatti delude solo le aspettative di chi si sarebbe aspettato un monologo incentrato sui suoi viaggi nelle zone povere del mondo: lo spazio c’è stato, ma alla conta finale è durato circa 40 minuti su circa 2 ore e 20 di spettacolo. All’apparenza poco tempo, ma nel quale lo Zio Hank propone un aneddoto dietro l’altro: dal regime della Nord Corea, che emerge in un dialogo con il traduttore che gli fu assegnato, ad una Haiti ancora lacerata dal terremoto, passando per l’India e le sue esperienze tra serpenti velenosi e bizzarrie culinarie (per gli standard occidentali) e un viaggio surreale in autobus a Cuba con un autista filo-americano. Piccola parentesi dedicata anche all’Italia, e non solo per il “I don’t want to leave you behind” riferito alle presunte carenze nella lingua inglese, che sono tra le prime motivazioni del mancato sbarco dei suoi Spoken Word in Italia in passato, ma anche per elogiare la sua cucina, ricca di prodotti naturali e di olio d’oliva (“fosse per me, lo metterei anche nel caffè“).
Tutto il resto dello show è un fiume biografico della sua vita, arrivata al traguardo dei cinquant’anni proprio pochi giorni fa: un vero e proprio flusso di coscienza, senza alcun filtro e, all’apparenza, filo logico, con un coinvolgimento emotivo capace di tenere incollati sulla sedia i pochi presenti, grazie anche al ritmo elevato e la mancanza assoluta di pause. Uno show che percorre le linee guida tracciate nel monologo della sera precedente, ma con alcune parti “inedite”, come l’incontro con un Lars Ulrich agli esordi, gli apprezzamenti per la città di New York (“la mia meta preferita per i locali e per la vita che ci gira attorno“) e le prime avventure dei Black Flag in Europa e in Unione Sovietica, anche qui alle prese con un improbabile traduttore. Nel corso dello spettacolo spiega anche il perché un suo ritorno alla musica sarà improbabile: non è solo per l’età che ormai avanza inesorabile, ma anche perché, al contrario di molti altri colleghi, non preferisce finire vittima di inutili baracconi nei quali vengono proposti temi fuori luogo e che fanno riferimento ad un periodo della vita ormai passato.
Una serata che inizia in sordina, senza alcun intro pomposo, e che si conclude in maniera altrettanto sobria, con un Henry Rollins che stacca il suo microfono e esce tra gli applausi, salutando quasi timidamente. Speriamo che il suo, per il nostro Paese, sia solo un arrivederci: di spettacoli di questo tipo ne abbiamo bisogno.
Nicola Lucchetta