Editors – PalaTorino, Torino 12 aprile 2010

editors torino 2010
Anno di grazia 2010. Il Palatorino offre una serata fresca nonostante la Primavera sia ormai imperversante. Nubi all’orizzonte e vento frizzante sono l’ultima immagine di una Torino già notturna pronta a calarsi tra le braccia degli Editors.


La terza data italiana, che si è rivelata necessaria dopo la doppietta milanese di dicembre, rivela un forte apprezzamento per il gruppo, ed è questo ciò che si evidenzia maggiormente osservando la quantità di pubblico che si appresta ad assistere all’evento di questa sera. L’Inghilterra chiama, la comunità indie risponde (sonoramente).

Si comincia con “In This Light And On This Evening”. Luce cupa e voci distorte, suoni scuri che si flettono flessuosamente con luci che aiutano a calare il quartetto di Birmingham nella loro dimensione più naturale. Intro sospirato e rallentato, una dilatazione spaziale appena prima della deflagrazione sonora, i quattro sono già carichi e si nota; figure apparentemente statiche sull’orlo di un precipizio.. al tre si salta. Già da subito l’emozione dilaga e il raptus da movimento incontrollabile che parte dalla gamba sinistra ben presto non può fare a meno di raggiungere tutto il resto del corpo. “Dancing on the edge of darkness”.

Si procede spediti, un pezzo dopo l’altro, e non si può fare a meno di notare la pulizia e la precisione con cui i brani vengono eseguiti, sintomo e naturale effetto collaterale di una band che di strada on stage ne sta macinando e ormai già da anni: come non ricordare le performance ormai del 2006 al Glastonbury o il recentissimo tour europeo che vede i Nostri impegnati quasi quotidianamente. I pezzi più recenti, carichi fino alla soglia del dolore di synth e drum machine, come nel caso di “Brick and Mortar”, sono perfettamente in grado di alternarsi con brani dal più facile godimento, ai quali non si può negare una fortissima capacità evocativa, come nel caso di “No Sound But The Wind” o la stessa hit “Smokers Outside The Hospital Doors” .

Sopra tutto, la voce scultorea di Tom Smith è un capitolo a parte: limpida e baritonale non perfora le orecchie, ma arriva calda e rassicurante lì dove gli antichi greci collocavano i frenes, termine troppo complesso per essere sintetizzato nella nostrana catalogazione di cuore. Si sono sprecati i paragoni con Ian Curtis o ancora con gli Interpol. Premesso che i Joy Division ne siano sicuramente gli ispiratori, in quanto primi alfieri di questo genere, vero è che molto spesso l’invidia tipica dell’italiano medio porta a screditare artisti validi con il banale argomento della copiatura.

I ritmi sono incalzanti più che in studio, dove forse il prodotto finale risente di scelte poco valorizzanti l’impatto sonoro in favore di altre dimensioni; dal vivo i quattro svelano un impatto acustico che non ci si aspettava viste le esili figure puerili che ci troviamo davanti. Quindici pezzi che riassumo i 3 album finora usciti e poi un piccolo break. Si ricomincia con una chiosa di quattro pezzi che soddisfa le voluttà di una Torino ormai completamente decaduta in un amore incondizionato. Artefice indiscussa di tale risultato un’allegoria musicale di chi in questo momento viaggia tra i 20 e i 30 e sente di avere qualche carta da giocarsi, paladino di tale sensazione la voce poetica, oltremodo seriosa e monitoria, di un giovanotto che quando si mette al piano tira fuori fantasmi che si erano faticosamente ricacciato nell’ade dei propri ricordi.

Francesco Casati

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