Una chiacchierata senza alcun filtro: dalla vita in tour alla politica, passando per i fatti personali che sono uno dei temi principali di questa loro ultima fatica.
Per quali ragioni avete aspettato quattro anni per pubblicare il successore di “Death To Tyrants”? E puoi spiegarci qualche dettaglio su questa nuova release?
Abbiamo fatto più di due anni di tour per promuovere questo disco! Poi, finite queste date, abbiamo fatto una serie di concerti nei festival estivi europei per poi andare in Australia e in Europa con i Dropkick Murphys. “Based On A True Story” lo abbiamo registrato in Danimarca con Tue Madsen, che aveva già lavorato con noi per il precedente disco. Rispetto a “Death To Tyrants”, abbiamo deciso di lavorare in Europa perché lo stesso Tue ci aveva detto che nel suo studio, poteva ottenere dei risultati migliori di quanto aveva già fatto. Escludendo questa trasferta, non ci sono state grosse differenze rispetto al resto della discografia: nella nostra carriera, solo con “Stratch The Surface” abbiamo lavorato diversamente, essendo stata la prima pubblicazione per una major.
Questo è il vostro secondo album per Century Media. Come vi sentite a far parte di un’etichetta che, principalmente, propone band heavy metal?
E’ una gran cosa, soprattutto perché loro stanno facendo un grandissimo lavoro per noi qui in Europa, mentre in America ci vedono ancora come una band hardcore, destinata a “non vendere molto”. Ma non si rendono conto che, in realtà, i Sick Of It All hanno una fanbase molto ampia, che non si limita alla sola scena hardcore. Al contrario, in Europa siamo seguiti da chi ascolta l’hardcore, ma anche l’heavy metal o il rock più duro.
A cosa vi siete ispirati per il titolo dell’ultimo disco? E quali sono gli argomenti che trattate nelle canzoni?
Beh, il titolo è piuttosto eloquente: in “Based On A True Story” abbiamo messo da parte la rabbia e la politica, che puoi trovare nelle passate release, e deciso di focalizzarci sui fatti che ci stanno più vicini, sulla realtà di tutti i giorni e sul nostro percorso dall’adolescenza ad oggi. La canzone “Death Or Jail” è un esempio perfetto: in questo brano, infatti, si parla della vita del mio migliore amico ai tempi delle scuole superiori che, con il passare del tempo, è diventato uno spacciatore e poi è finito in carcere. La cosa strana è che io e lui abbiamo condiviso molte cose in quel periodo: stessi amici, stessi posti, stessa scuola. Ma alla fine lui ha comunque scelto la strada sbagliata, che lo ha portato in prigione e, dopo un paio di mesi, a morire. Tutto ciò mi ha portato a chiedere le ragioni di quella che è una vera e propria tragedia e, riflettendo, ho iniziato a scrivere “Death Or Jail”. In ogni caso, abbiamo anche dato spazio a brani più allegri, come “A Month Of Sundays”.
Siete stati in Europa con i Dropkick Murphys e gli AFI nell’ultimo anno e ora siete tornati con i Madball.. questi saranno i vostri ultimi show nel Vecchio Continente per un bel periodo?
Abbiamo fatto veramente troppe date in Europa negli ultimi mesi, di sicuro non torneremo da voi per un bel po’, anche perché alla lunga puoi correre il rischio di diventare monotono e trovare sempre meno gente ai tuoi concerti. Penso che il tour con i Dropkick Murphys sia stato un’esperienza indimenticabile per la nostra band, e anche quello con gli AFI ci ha regalato grosse soddisfazioni. Anche se siamo di fronte a gruppi che sono sulla scena da meno anni, non ci siamo mai posti il problema di aprire per loro. La cosa positiva di andare in tour con band che fanno una proposta diversa dalla tua è il fatto che ti proponi a dei fan che magari non hanno mai sentito una tua nota. E proprio questi due tour hanno spianato la strada al successo clamoroso che stiamo avendo con “Based On A True Story”: è stato impressionante vedere il titolo del nostro ultimo album al quarto posto delle charts tedesche.
Siete nella scena hardcore da più di vent’anni. Quali sono le differenze tra il mercato statunitense e quello europeo?
In Europa devo ammettere che siete una scena molto più aperta dal punto di vista degli ascolti; mentre in America stiamo incontrando troppe difficoltà. Il tutto lo puoi ricondurre a due motivazioni principali: la vecchia guardia ormai non esce più per dei concerti e i giovani tendono ad ascoltare band più vicine alla loro fascia di età, snobbando i concerti di nomi ormai rodati o, per loro, “superati”. L’assurdo è che tutto questo è differente rispetto a quando io ero un teenager: io e i miei coetanei ascoltavamo sì band giovani e dei nostri amici nei loro garage, ma spesso si prendeva un’auto e si andava in città per vedere dal vivo i nomi grossi dell’epoca, come Bad Brains o Dead Kennedys. E la grandezza del movimento, capace di creare da zero una cosa gigantesca, di quegli anni la capisci con i documentari dell’epoca, come ad esempio American Hardcore.
Vi hanno indicato da sempre come i creatori del Wall of Death.. come vivete questo status?
Vuoi sapere quando è nato? Ecco, prendi la foto nella copertina del nostro disco “Blood, Sweat And No Tears”: è uno scatto del lontano 1986 e già in quegli anni i nostri fan avevano dato vita, durante i nostri concerti, ad una forma primordiale di quello che oggi chiamate Wall Of Death. Però ai tempi lo si vedeva solo negli States. A metà degli anni Novanta decidemmo di “esportarlo” in Europa e, per spiegare loro come funzionava, abbiamo utilizzato il film Braveheart, che era uscito da poco nei cinema. La cosa divertente è che il Wall Of Death è, come hai detto, un simbolo che ci troviamo addosso: quando suoniamo nei vari festival estivi, molte band invitano i loro fan a vedere il nostro show, per capire qual è il vero Wall Of Death. Questo invito lo fanno band famose o meno, gruppi punk/hardcore, come i Pennywise, ma anche metal act di primo livello come Sepultura, Slipknot e Papa Roach.
Siete sempre stati dei musicisti attivi politicamente.. qual è la tua opinione sui primi due anni di Barack Obama come Presidente degli Stati Uniti?
Penso che lui, come politico, abbia veramente delle grandi idee; ma che, allo stesso tempo, gli Stati Uniti non siano ancora pronti ad un vero cambiamento e, più nello specifico, ad un Presidente di colore. Gli statunitensi spesso sono molto stupidi, perché si limitano all’immediato e vedono, ad esempio, una maggiore tassazione come cose “da comunisti”. Io non sono un esperto di economia, ma è sotto l’occhio di tutti che è necessario dare a lui una possibilità. Siamo una nazione allo sfascio, l’economia sta andando malissimo e stiamo partecipando attivamente a tante, troppe, guerre. Lo scorso anno Obama ha presentato un piano per un aumento graduale delle tasse, ed è stato subito criticato da una buona fetta della popolazione; la stessa gente che, pochi anni prima, elogiava Bush per avere ridotto le tasse al minimo. Purtroppo, se vogliamo restare in piedi è necessario aumentare i tributi e lo stesso Obama ha capito che era necessaria una svolta da questo punto di vista, una vera rottura con il precedente regime. Obama ha delle enormi potenzialità, e spero che tutti quelli che attualmente lo stanno criticando ferocemente gli diano un’ulteriore chance.
Nicola Lucchetta