Pur essendo parte dei Big Four del Britpop, insieme a Blur, Oasis e Pulp (in rigoroso ordine alfabetico per evitare faide), questa etichetta ai Suede è sempre andata molto stretta. E rispetto agli altri tre nomi, sono sempre stati l’anello debole del movimento, al punto di non aver goduto di un vero e proprio successo al di fuori del Regno Unito negli anni Novanta e, al contrario del gruppo di Jarvis Cocker, anche dopo la reunion del 2010.
“The Blue Hour” chiude un discorso iniziato cinque anni fa con “Bloodsports” e rispetto al passato presenta dei fattori che danno un tocco di freschezza alla proposta, come l’utilizzo della City of Prague Philharmonic Orchestra o di piccoli spoken word che collegano le 14 canzoni come un unico flusso musicale. Spoken word che esplodono in quella “Roadkill” piazzata a metà disco che accresce il valore cinematico di questo lavoro.
C’è l’epicità, dovuta al lavoro dell’orchestra ma anche al contributo di alcune scelte strumentali e vocali (alcuni cori dal retrogusto gregoriano), ma anche i grandi riff di Richard Oakes, che si ritaglia molti spazi come in quella “Cold Hands” ideale continuazione della precedente “Chalk Circles” o in “Don’t Be Afraid If Nobody Loves You”.
Con “The Blue Hour” gli eccessi che hanno caratterizzato la storia della band, causandone anche la sua fine, sono stati riversati in uno dei lavori più ambiziosi del gruppo, da leggere e godere dall’inizio alla fine come un vero e proprio film.